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Questo articolo è stato pubblicato il 23 giugno 2014 alle ore 08:04.
L'ultima modifica è del 23 giugno 2014 alle ore 08:05.

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Nel mondo della scuola, dell'università e della ricerca si combatte in Italia una guerra sotterranea. Tra chi ritiene che i processi formativi possano essere misurati, usando queste misure per rendere conto del lavoro svolto, e chi al contrario pensa che "per natura" la formazione e la trasmissione della conoscenza siano fenomeni così complessi da sfuggire a ogni tentativo di quantificazione.

Difficile negare validità a ciascun punto di vista: da un lato è evidente che l'esperienza scolastica o universitaria modificano le prospettive dei giovani nel mercato del lavoro (aspetto quantitativo); dall'altra è altrettanto vero che le stesse esperienze modificano il modo di pensare degli stessi giovani (aspetto qualitativo). La prima dimensione è misurabile con relativa facilità, la seconda è descrivibile in riferimento ai singoli casi, ma è quasi impossibile fornirne una media (basti pensare allo spirito critico o alla creatività: di quanto migliorano questi aspetti in un giovane che frequenti un determinato corso di laurea?).
Fino a una quindicina di anni fa il sistema universitario italiano è rimasto immerso nella nebbia. Non si conosceva il numero esatto dei professori universitari, sugli abbandoni universitari si avevano stime approssimative, sull'attività di ricerca non si disponeva di nessuna informazione. Contribuivano a questa situazione diversi fattori: una mancata regolazione della prestazione lavorativa dei professori universitari, che rendeva intangibile (e quindi non misurabile) i suoi contenuti; una concezione burocratica della Pa, centrata sulla soddisfazione dei requisiti di legittimità formale, invece di una concezione manageriale centrata sugli obiettivi; un'assenza di cultura organizzativa che usi i dati per il monitoraggio dei processi.

Le cose sono progressivamente cambiate, in alcuni casi addirittura precipitosamente. A partire dai primi rapporti del Cnvsu (2001) abbiamo cominciato a conoscere e a quantificare i problemi dell'università italiana: gli abbandoni durante il percorso universitario, i tempi lunghissimi del completamento delle lauree, l'invecchiamento del corpo docente, l'immissione di personale in ruolo a ondate anomale. Abbiamo dovuto aspettare il Civr (2004) per avere una prima mappa della qualità della produzione scientifica all'interno degli atenei. Nel frattempo il ministero aveva riassorbito in proprio la responsabilità di fornitura dei dati sul funzionamento delle Università autonome, obbligando i singoli atenei a compilare rapporti annuali (per il tramite dei Nuclei di valutazione interni) e più recentemente a riversare periodicamente i propri dati amministrativi. È stato nel contempo avviata l'attività dell'Anvur, cui è stato affidato il compito della valutazione sia dell'attività didattica sia della ricerca negli atenei. E l'Anvur si è immediatamente scontrata con la perdurante assenza di dati. Bastino due esempi: 1) non esiste ancora oggi una banca dati completa e affidabile della produzione scientifica dei docenti e ricercatori italiani. Perché? Molti atenei hanno varato archivi della ricerca, ma il controllo della qualità del dato immesso è variabile tra atenei. Molti archivi riversano sull'archivio del Cineca (da cui sono state estratte le tanto discusse mediane), ma il grado di copertura non è universale. I lettori interessati possono approfondire il tema leggendo il primo rapporto di Anvur sull'università italiana; 2) non abbiamo ancora un'anagrafe degli studenti integrata tra scuola e università, che sia in grado di dirci per ogni coorte di nascita quali siano i risultati finali. Perché? Perché un funzionamento adeguato dell'anagrafe si scontra con gli ostacoli frapposti dal rispetto della legislazione sulla privacy, che impedisce l'integrazione dei dati del Miur (lato scuole), delle Regioni (formazione professionale), delle università e dei Centri per l'impiego. Dal punto di vista informatico nulla impedisce che al codice fiscale di ogni bambino si aggancino tutte le informazioni sulla sua carriera scolastica (classi frequentate, voti ottenuti, eventuali bocciature, tipo di secondaria), universitaria (corso di iscrizione, crediti e voti conseguiti) e lavorativa (contratti di lavoro, durata, retribuzione).

Sembra di parlare di un mondo futuribile, certamente ancora molto lontano. Ma se oggi tutto questo non è avvenuto, sorge il dubbio che non sia un mondo desiderato o desiderabile da una parte del Paese. Piacerebbe sapere quanti studenti si laureano, quanti trovano lavoro, con che tipo di contratto e con che livello di retribuzione. Piacerebbe sapere quanto e dove pubblicano i docenti e i ricercatori. Piacerebbe sapere se si studia meglio e se si trova lavoro più facilmente dove si fa attività di ricerca più intensamente.
Ma queste non sono domande di ricerca per addetti ai lavori. Sono informazioni che l'amministrazione universitaria dovrebbe fornire preventivamente ai cittadini che intendano usufruire dei suoi servizi. Sono informazioni che devono essere fornite in modo intellegibile da tutti, affinchè possano essere fruibili. I dati di queste pagine sono un buon esempio di come si possano fornire informazioni in un formato utilizzabile. Ma già immagino i detrattori che cominceranno a obiettare sull'affidabilità di questo o quel dato, o sulla loro ponderazione. Oppure qualche rettore preoccupato della fuga di studenti a seguito di un dato troppo negativo. Credo che sia ora di smettere di considerare gli studenti e le loro famiglie come incapaci di formarsi opinioni ponderate, al punto di negare la fornitura trasparente dei dati. Certo, si formeranno delle mode, anche infondate. Ma non sono avvenute anche in passato? Negli anni di "Mani pulite" le iscrizioni a Giurisprudenza si impennarono. Quando Berlusconi entrò in politica arrivarono gli anni delle facoltà di Comunicazione. Ma poi le mode rientrano e nel lungo periodo le scelte diventano più informate e più coerenti con le potenzialità e le aspettative degli studenti.

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