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Questo articolo è stato pubblicato il 25 giugno 2014 alle ore 21:06.
L'ultima modifica è del 25 giugno 2014 alle ore 21:21.

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(Reuters)(Reuters)

«Almeno tre soldati uccisi e altri sette feriti oggi a Bengasi", nel giorno in cui la Libia elegge il nuovo Parlamento. Lo ha reso noto Khalil Gouider, portavoce di un centro ospedaliero di Bengasi. Gli scontri - ha aggiunto una fonte dei servizi della sicurezza - sono avvenuti a sud della città tra un gruppo islamista e l'esercito. Intanto i seggi sono stati chiusi alle 20. I risultati saranno annunciati tra venerdì e sabato. Su un totale di 1,5 milioni di aventi diritto al voto, alle 17,30 si erano recati al voto in 400mila, per un'affluenza pari al 27%. (redazione online)

di Roberto Bongiorni
La Libia che oggi si reca alle urne per rinnovare il parlamento è un Paese sull'orlo del baratro. Definirlo stato fallito potrebbe esser fuorviante. Perché, in verità, la Libia non ha potuto mai essere una vero Stato; prima la monarchia, e poi 43 di un regime oscurantista e repressivo hanno lasciato l'ex colonia italiana orfana delle basilari istituzioni democratiche.

I numeri hanno la forza di illustrare sinteticamente – ed efficacemente - un contesto che richiederebbe molte parole. E quelli che offre la nuova Libia non sono certo incoraggianti. Quattro sono i premier che si sono succeduti in poco più di un anno; 250mila barili al giorno è la produzione petrolifera nazionale, mutilata dal blocco dei terminali che si trascina dallo scorso anno. Un volume ancora molto lontano dagli 1,4-1,5 mbg estratti esattamente un anno fa. Sei miliardi di dollari, sono le entrate petrolifere perdute da inizio anno. Trentasei miliardi sarebbe il nuovo budget - ulteriormente ridotto per mancanza di fondi – stanziato per il 2014, e in verità non ancora approvato ufficialmente. Oltre un milione l'esercito dei dipendenti pubblici, di cui molti non lavorano, su una popolazione di poco superiore a cinque milioni. Decina di migliaia i combattenti dispersi nelle agguerrite milizie, ancora in possesso di un pericoloso arsenale militare. Decine i diplomatici stranieri, soprattutto arabi, sequestrati dal 2013.

Sono ormai passati quasi tre anni dalla morte di Muammar Gheddafi, ucciso a Sirte il 20 ottobre del 2011, salutata dalla popolazione come la fine di una cruenta guerra civile trascinatasi otto mesi. Eppure la transizione libica, partita sotto i migliori auspici, appare oggi come una delle più complesse e di più difficile risoluzione. Con il rischio di una frammentazione - Fezzan, Cirenaica e Tripolitania - del Paese e un rafforzamento delle cellule jihadiste che agiscono indisturbate in diversi territori della Libia orientale.
Oggi 1,5 milioni di elettori si recheranno negli oltre 1.600 seggi sparsi per il Paese per votare i 200 uomini che siederanno nella Camera dei rappresentanti, il nuovo Parlamento di Tripoli . Una dato salta subito all'occhio. Nella storica elezione del luglio 2012, il primo vero voto in più di mezzo secolo che vide l'affermazione della coalizione "laica" guidata da Mahmoud Jibril (ex premier del Consiglio nazionale di transizione) e la sconfitta dei partiti islamici , gli elettori erano stati 2,8 milioni. La disaffezione dei libici nei confronti del processo democratico è dunque evidente.

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