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Questo articolo è stato pubblicato il 25 giugno 2014 alle ore 21:06.
L'ultima modifica è del 25 giugno 2014 alle ore 21:21.

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Arturo Varvelli, ricercatore dell'Ispi e autore di diversi saggi sulla Libia, preferisce la cautela: "Attendersi una svolta da questo voto è un calcolo ottimistico. C'è da augurarsi che queste elezioni possano creare un terreno fertile per una discussione costruttiva tra le diverse anime della Libia: movimenti federalisti, rappresentanze locali, tribù,, movimenti "secolari" e movimenti islamici. Un punto di incontro comune. Insomma che siano un primo passo nella direzione della rielegittimazione delle Istituzioni. Ma anche questo non è scontato"

Ancora una volta la sfida è tra i movimenti islamici, guidati dalla costola locale dei Fratelli musulmani e da diverse altri raggruppamenti, e la coalizione laica, più vicina all'Occidente. Duemila sono i candidati in corsa, che si contenderanno 200 seggi. A complicare ulteriormente il quadro è l'architettura del processo elettorale, che non prevede una competizione tra partiti politici: "Ben 168 seggi, andranno a candidati indipendenti – continua Varvelli - mentre i restanti 32 seggi saranno assegnati alle donne come quota rosa. Il fatto che si tratti di candidati indipendenti presenta vantaggi e svantaggi. Sul fronte politico, l'esito del voto potrebbe rispecchiare meglio le realtà locali. Un fatto positivo, anche perché la Libia resta un paese a forte presenza tribale. Ma quanto ai tempi di formazione per il nuovo governo non è improbabile che trascorrano diversi mesi prima che si raggiunga un accordo. Non è escluso che l'Esecutivo venga formato dopo l'estate".

Tempi lunghi. Che tuttavia l'ex regno di Gheddafi non può permettersi, pena ulteriori disordini. Per far fronte all'"emergenza budget" i vari Governi hanno attinto fondi dalle riserve della Banca centrale. Dei 132,5 miliardi di dollari presenti un anno fa ne sono rimasti oggi circa 110. Ma buona parte di questi fondi non sono di immediata liquidità e comunque disponibili in tempi brevi. Occorre quanto prima risolvere la crisi petrolifera. Raggiungere un accordo con i ribelli della Cirenaica che hanno chiuso i terminali per l'export. Isolare le formazioni estremiste islamiche. Riprendere le esportazioni. La Libia è un paese petro-dipendente. Il 95% delle esportazioni arriva dall'energia. E sull'energia è costruita l'ossatura del budget governativo. Occorre far presto. In un Paese che acquista tutto dall'estero – l'import risucchia 30 milairdi di dollari l'anno – abbattere i sussidi governativi (ogni mese 650 milioni di dollari sono allocati per il carburante) potrebbe provocare sommosse popolari.

Il voto di oggi, insomma, è importante. Forse permetterà di comprendere meglio anche le reali intenzioni del potente generale Khalīfa Belqāsim Haftar, il convitato di pietra di queste elezioni. La sua guerra personale contro le milizie islamiche in Cirenaica continua ad andare avanti. Fin dove voglia arrivare il nuovo "uomo forte" della Libia, non è ancora chiaro.

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