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Questo articolo è stato pubblicato il 21 settembre 2014 alle ore 13:34.
L'ultima modifica è del 22 settembre 2014 alle ore 07:48.

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Circa quarant'anni fa, in un'Italia molto diversa da oggi, Ugo La Malfa aveva posto un problema centrale alla politica del suo tempo, descrivendo la cittadella fortificata in cui si erano rinchiusi i privilegiati, ossia coloro che avevano un lavoro, e dalla quale erano invece esclusi i disoccupati. La sfida era piuttosto esplicita e così la intesero coloro ai quali era rivolta: il mondo comunista e socialista e i sindacati.

Questi ultimi in particolare, con Luciano Lama, seppero raccogliere il messaggio e il confronto che ne seguì diede un contributo non trascurabile all'evoluzione della sinistra.
Questo per dire che non c'è bisogno di scomodare Blair o Schroeder, e tanto meno di tirare in ballo la Thatcher, per spiegare le iniziative di Renzi sulla riforma del lavoro.

Nell'Italia smemorata dei nostri tempi tutto appare nuovo e mai sentito prima, per cui ogni presa di posizione che increspa lo stagno deve essere per forza importata dall'estero. Ed è vero, senza dubbio, che è urgente un rinnovamento culturale in grado di restituire un senso alla politica e anche di modellare nuove relazioni con il sindacato: purché quest'ultimo decida di vivere nel nostro tempo.

In ogni caso, quello che risulta essere - e in effetti è - un grave ritardo nell'aggiornare gli schemi e i codici del dibattito politico, è anche figlio della pigrizia degli ultimi vent'anni. Ossia il periodo in cui la sinistra, dietro l'alibi della lotta mortale a Berlusconi, ha rinunciato a muoversi con passo rapido e si è chiusa nel fortilizio da cui troppi sono stati tenuti fuori: i disoccupati, certo, ma anche coloro che via via hanno perduto fiducia nel sistema. Eppure sarebbe bastato ritrovare gli autentici spunti riformatori del dopoguerra, sviluppandoli nella cornice del Duemila, per colmare il vuoto.

Sulla questione del lavoro, è stato notato da molti osservatori, Renzi ha ragione. Come ha ragione nel colpire le incrostazioni ideologiche dure a morire, specchio di un'Italia che in quei termini non esiste più. Si chiedeva al premier di essere concreto, di passare ai fatti dopo tante parole, e non si può adesso rimproverargli di essere fedele a se stesso.

Anche perché l'attuale sinistra - che militi nel Pd, in altre formazioni o nel sindacato - dovrebbe avere tutto l'interesse a incoraggiare il riformismo di Palazzo Chigi. Magari per correggerlo e integrarlo nel corso del dibattito parlamentare, ma senza dare l'impressione di un «no» pregiudiziale e quindi ideologico: il che vale per la Cgil, naturalmente, ma anche per la minoranza del Pd (non tutta per la verità, basta leggere le parole di buon senso pronunciate dal presidente democratico, Orfini).

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