Di fronte al plotone d’esecuzione schierato, pronto a sparare, il condannato esprime un ultimo desiderio: fare una telefonata. La conversazione si protrae fino a notte, lasciando sottintendere che la fucilazione sarà rimandata all’infinito. La geniale pubblicità ideata da Armando Testa nel 1993 per l’allora Sip (poi Telecom e Tim) con protagonista l’attore Massimo Lopez si chiude con lo slogan «Una telefonata allunga la vita», che diventa un tormentone.
Un’idea vincente, che frutta ad Armando Testa un riconoscimento al Festival del cinema di Cannes e che, oggi, supera la sua funzione originaria legata al marketing per riemergere nella sua drammatica verità nei racconti dei migranti costretti a lasciare i loro Paesi d’origine – dall’Africa subsahariana alla Siria all’Afghanistan – e impegnati in viaggi-odissee nel tentativo di raggiungere un’Europa che rappresenta, nell’ordine, salvezza e speranza di una vita migliore.
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Possedere un cellulare, uno smartphone, potersi connettere alla rete per consultare siti e social network, comunicare con chi si è lasciato alle spalle e con i riferimenti nei Paesi che si vogliono raggiungere può davvero fare la differenza tra la vita e la morte, tra una rotta – un itinerario – sicuro e un altro pericoloso o impraticabile. Può determinare la riuscita o il respingimento. Può anche nascondere rischi.
«Gli smartphone sono preziosi per tenere i contatti con le famiglie d’origine e con amici e parenti espatriati, per ricostruire “patrie” virtuali - sottolinea Daniela Sironi, responsabile dell’impegno delle Comunità di Sant’Egidio dell’Italia del Nord anche nella loro dimensione internazionale – . A noi arrivano, via email e ad un cellulare che abbiamo dedicato, molte richieste di aiuto dai paesi di transito o di provenienza».
Ahmed Ali Aldayeb ha quasi 50 anni, è in Italia dal 1995, quando è arrivato dalla Somalia. Dopo aver lavorato in una impresa di pulizie, come pony express, nei servizi e nella logistica, come elettricista e alla Indesit, è entrato in contatto con la cooperativa Farsi Prossimo e da 15 anni lavora come mediatore culturale al centro di accoglienza Casa Suraya, a Milano. Il suo lavoro lo porta a incrociare le storie di centinaia di persone, a raccoglierne le testimonanze: «La tecnologia aiuta moltissimo le persone che sono in viaggio. Sia durante il tragitto per arrivare in Europa, sia per proseguire verso quello che è il Paese “obiettivo”, che spesso non è l’Italia ma nel Nord Europa. Attraverso i social network o i contatti si riescono ad avere indicazioni sulle strade più sicure, se sia meglio tentare di passare una frontiera piuttosto che un’altra: da Ventimiglia o dal Brennero».
Smartphone, social media e app diventano bussola e salvagente, tornando alla funzione originaria della comunicazione, che si è quasi persa nel mondo cosiddetto “sviluppato”, dove l’utilizzo compulsivo dei device assume sovente forme patologiche e di “vitale” ha poco o nulla. Eppure nella crescente narrazione populista-razzista il possesso di un cellulare da parte di un migrante viene indicato come «prova che non si tratta di persone povere» e, quindi, «perché dovremmo pagarne i costi dell’accoglienza»? La risposta la fornisce il fact-checking dell’Unhcr: «Per sgombrare la mente da pregiudizi, basta riandare alla nostra esperienza quotidiana, alle decine di chiamate che facciamo per dire “sono arrivato”. I migranti e rifugiati percorrono rotte pericolose e lunghissime: a volte lasciano dietro di sé parenti, altre volte attraversano mari e deserti per raggiungere qualcuno che li aspetta in Europa. Il cellulare è quindi indispensabile per comunicare con la famiglia. Non solo: grazie allo smartphone, i migranti scambiano informazioni “di servizio” legate al viaggio e ai possibili rischi».
La diffusione di smartphone e accesso alla rete Internet, inoltre, sta crescendo a ritmi notevoli, che si tratti di Asia o di continente africano.
Il numero di abbonati nell’Africa sub-sahariana è destinato a passare dai 445 milioni del 2017 a 638 milioni del 2025. Il tasso di penetrazione salirà dal 44% di un anno fa al 52%. Dati, questi, non direttamente connessi con il fenomeno delle migrazioni – ovviamente – ma che aiutano a capire come negli ultimi anni i dispositivi stiano assumendo un ruolo sempre più importante nella vita delle persone anche al di fuori del nostro “giardino”. I dati sulla diffusione degli smartphone nelle diverse aree del mondo sono contenuti nel report Mobile economy 2018, prodotto dal team interno di Gsma e presentato all’ultimo Mobile world congress. Il numero di smartphone nell’Africa subsahariana crescerà del 43,4% di qui al 2025. Nello stesso periodo 2017-2025 gli utenti Internet sono destinati a passare da 211 milioni a 495 milioni, con un tasso di penetrazione che salirà dal 21 al 40% della popolazione. Il report sottolinea come «per molti consumatori in tutta l’Africa subsahariana, il telefono cellulare non è solo un dispositivo di comunicazione, ma anche il canale principale per l’accesso online, nonché uno strumento essenziale per accedere a vari servizi che migliorano la vita. L’adozione di dispositivi mobili è cresciuta rapidamente negli ultimi anni». Le connessioni web passeranno da 749 milioni del 2017 a oltre un miliardo nel 2025.
Le cifre sono in netto aumento anche in altre aree del pianeta, che a loro volta sono interessate da flussi migratori generati da guerre e carestie. In Asia e Pacifico gli abbonati mobile sono destinati a passare da 2,3 miliardi a 3,2; in Medio Oriente e Nord Africa i numeri sono più bassi ma comunque in crescita: si salirà da 398 a 492 milioni.
«Si tende a commettere l’errore di considerare l’Africa come un contesto unico, ma non è così. Ci sono aree del continente totalmente prive di connessioni e migranti che non hanno mai visto un cellulare – puntualizza Piergiacomo Baroni, responsabile piemontese della scuola di italiano per stranieri della Comunità di Sant’Egidio –. Ma anche altre aree dove non è mai arrivato il telefono fisso, sostituito da anni da cellulare e smartphone».
Save the children ha pubblicato nel 2016 il rapporto Minori migranti: viaggio attraverso la rete – ripreso anche nell’Atlante dei minori migranti 2017 –, nel quale ha raccolto «le testimonianze dei minori migranti non accompagnati giunti in Italia sul loro utilizzo delle tecnologie digitali in tutte le fasi del loro viaggio, dal concepimento dell’idea di partire sino all’attuale permanenza nel nostro Paese». In linea con quanto rilevato da Baroni, il report spiega che «i dati sull’accesso a internet prima della partenza variano fortemente a seconda del Paese d'origine dei ragazzi. Il tasso più alto si registra tra i giovani egiziani, mentre per quelli provenienti da contesti subsahariani le possibilità di accesso erano scarse o nulle».
I racconti allo stesso tempo si assomigliano e presentano diverse sfaccettature. Chi dispone di connessione la usa per “preparare” il viaggio. A volte, ma non sempre, sulla decisione ultima di partire influiscono racconti e immagini sui socialnetwork o via Whatsapp di chi è già in Europa.
Connettersi e comunicare durante il viaggio non è sempre possibile o può rappresentare addirittura un rischio. «Durante il viaggio sulla barca ci dicevano di tenere il cellulare spento, per evitare di essere intercettati dalla polizia» ricorda “S.”, 18 anni. Non è solo la polizia di frontiera il rischio. Anzi. Il vero rischio per i migranti sono proprio i trafficanti e i loro ricatti. Lo dice un’altra testimonianza raccolta da Save the Children: «Un ragazzo egiziano arrivato in Italia tramite la rotta balcanica, ha detto che i trafficanti volevano che usasse Facebook per comunicare quando fosse arrivato in Italia, per farsi poi inviare la parte rimanente dei soldi per il viaggio». E se dietro di te, nel viaggio, hai lasciato amici o parenti è peggio: «Dai campi di internamento in Libia - racconta Baroni – un nostro studente riceve le telefonate del fratello che chiede soldi dicendo che altrimenti i trafficanti lo torturano».
L’ambivalenza della rete emerge da altri racconti del rapporto Minori migranti. Un ragazzo egiziano, di 17 anni, spiega
come sia partito «con un gruppo di amici dopo aver utilizzato internet per preparare la partenza». Un adolescente bengalese
«ha raccontato che una volta arrivato in Ungheria ha utilizzato Google
Maps per capire dove si trovasse effettivamente e trovare la giusta direzione» si legge nel rapporto di Save the children.
Nel 1991, all’epoca della massiccia immigrazione albanese, numerose testimonianze convergevano su un punto: oltre alla vicinanza delle coste l’attrattività della Penisola era legata alle immagini della società italiana che giungevano in Albania attraverso la televisione. Oggi quel ruolo incide di meno e comunque è svolto dai social network e dai racconti di chi è già in Italia o in Europa.
Mariana Slobodian ha solo 32 anni, «ma», dice, « mi sembra di averne molti di più». Quando scoppia la guerra in Ucraina è come se per lei e
la sua famiglia «crollasse il mondo». La sicurezza si deteriora in un attimo, le prospettive spariscono. Così, anche in seguito
alla spinta di conoscenti già in Italia, insieme al marito decide di vendere l’appartamento e di partire con i due figli
piccoli. Attraversano Polonia, Repubblica Ceca, Austria e arrivano in Italia nel luglio 2015. «Eravamo forse un po’ ingenui
– ricorda – sta di fatto che la realtà non è stata come l’avevamo immaginata. È stata dura, soprattutto avendo i bambini piccoli».
Lei, laureata, in Ucraina insegnava inglese e faceva la guida turistica. Il marito lavorava in banca. Qui, per i primi tempi
nulla. Ora va meglio: «Abbiamo ottenuto il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Io lavoro e anche mio marito ha finalmente
trovato un impiego a tempo determinato. Scade in questi giorni e speriamo glielo rinnovino». I figli frequentano la scuola
e lei, Mariana, ha preso la licenza media. «Ora vorrei riuscire a frequentare le superiori. Purtroppo la mia laurea ottenuta
in Ucraina qui non è riconosciuta».
Mamadywouri ha 20 anni. Arriva in Italia dal Senegal nell’agosto di tre anni fa. Quando parte ha con sé il cellulare, ma non è uno smartphone in grado di connettersi a Internet. «Mi serviva solo per comunicare a casa, con mia mamma e mia sorella». Il padre viene ucciso negli scontri tra esercito e ribelli. È a causa di questa situazione di pericolo che Mamadywoury decide di partire.
Altri tempi: il viaggio va diversamente ma vicende e motivazioni assomigliano a quelle che portano in Italia, 20 anni prima, Ahmed Ali Aldayeb. «Prima della guerra non ho mai pensato neppure di cambiare quartiere, figuriamoci città o Paese. Continuano a mancarmi gli amici e i posti della mia infanzia e mi mancheranno per sempre» racconta il mediatore culturale di Farsi prossimo. Nel 1990, quando scoppia la guerra civile, al potere c’è Siad Barre e Ahmed Ali lavora per la Italtel a Mogadiscio. La situazione diventa insostenibile, così Ahmed Ali Aldayeb decide di raggiungere il padre che è già nello Yemen. Ma anche lì le cose si complicano: «Scoppia la guerra del Golfo e il governo di Sanàa si schiera con Saddam. Gli altri Paesi dell’area espellono gli yemeniti e il paese deve accogliere un milione di profughi». Altri tempi: Ahmed Ali compra un biglietto aereo e con il visto turistico arriva in Italia. «A Milano c’era già mia sorella» ricorda. La situazione in Somalia gli consente di ottenere il permesso di soggiorno.
Perché non prendono l’aereo?
Un’altra delle domande che si inseguono sui social network e rivolte ai migranti è «perché non prendono l’aereo, invece di
spendere un sacco di soldi pagando i trafficanti e rischiare la vita nel viaggio sui barconi»? Perché, come spiega Ahmed Ali
Aldayeb – e in precedenza aveva fatto anche il Post citando un articolo di Vice – «i Paesi europei non rilasciano visti di ingresso da queste nazioni. Vengono richiesti requisiti che chi scappa non ha. La
gente che accogliamo non è benestante».
Le strade, quindi, sono obbligate. E sono quelle seguite da Mamadywoury, o Precious e Sissoko, una ragazza e un ragazzo giunti dalla Nigeria. «Quando ero piccola volevo diventare avvocato per poter aiutare le persone» racconta Precious nel video realizzato da Avsi per illustrare l’iniziativa Cucinare per ricominciare, organizzata dalla Ong in collaborazione con Panino Giusto e la cooperativa Farsi prossimo. L’iniziativa ha coinvolto una ventina di ragazzi con tirocini in aziende importanti e corsi di lingua italiana. «Ho imparato a cucinare. È un altro modo di prendersi cura degli altri» dice Precious.
Anche Ali Dembele, arrivato in Italia dal Mali, lavorava in un ristorante. «Gli avevano promesso uno stipendio decoroso e in regola» ricorda Piergiacomo Baroni. Invece riceveva 300 euro al mese. Così ha lasciato quell’impiego per non essere sfruttato ed è andato in Puglia. Alì Dembele è uno dei ragazzi stipati nei furgoni e morti negli incidenti stradali che hanno riportato alla ribalta la piaga del caporalato e lo sfruttamento dei braccianti stagionali.
Il processo di integrazione e speranza passa sempre dalla cucina anche per Mamadywoury. Per lui sta andando bene. Fa il cuoco a Orta, in provincia di Novara. Per arrivare in Italia ha attraversato Mali, Burkina Faso, Niger, Libia. «Il cellulare che avevo con me l’ho venduto a un certo punto del viaggio: non avevo più soldi per mangiare». In Libia trascorre sei mesi in prigione. «Le condizioni erano terribili. Non riuscivo più a lavorare, stavo male. Quando finalmente sono riuscito a uscire un cittadino libico mi ha aiutato dandomi un lavoro per alcuni mesi: finché non ho avuto i soldi necessari per partire». Il viaggio è durato circa 18 mesi.
«Io non volevo venire per forza in Italia – sottolinea Mamadywoury – volevo arrivare in un posto dove poter stare meglio e avere delle speranze. Come quella di poter portare qui un giorno la mia sorellina».
«Quali che siano le immagini e i racconti che arrivano nei paesi d’origine attraverso Internet, il divario tra le condizioni di partenza rispetto a quelle che i migranti trovano in Europa è enorme – puntualizza Piergiacomo Baroni di Sant’Egidio - Si tratta di differenze gigantesche e lampanti sotto l’aspetto economico, della sicurezza e della salute. Pensare che la “nostra crisi” possa rappresentare un deterrente alla decisione di mettersi in viaggio vuol dire non avere idea della realtà».
Al di là degli slogan #primagliitaliani, se si vuole cercare di mutare veramente la situazione in prospettiva, per Baroni «bisogna pensare seriamente a come creare condizioni reali migliori nei loro Paesi».
In una intervista al Sole 24 Ore del 27 luglio scorso, il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani ha parlato di «un piano Ue da oltre 50 miliardi per l’Africa di qui al 2027». Per il progetto in molti casi viene utilizzata la definizione “piano Marshall per l’Africa”: con il vero piano Marshall a partire dal 1947 «gli Stati Uniti diedero più di 13 miliardi di dollari alle nazioni d’Europa – quelli che oggi sarebbero più di 110 miliardi di dollari. Il denaro era solo una parte di questo investimento.una quindicina di miliardi come ordine di grandezza» ricorda Aaron Wess Mitchell, sottosegretario Usa per gli Affari europei ed eurasiatici in un articolo scritto in occasione del 70° anniversario del piano.
Al di là della discrepanza tra le cifre in gioco, come ricorda il Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione, realizzato dalla Fondazione Leone Moressa, nel 2015 al vertice della Valletta il presidente del Senegal Macky Sall spiegò chiaramente alle nazioni sviluppate: «Smettete di sfruttare l’Africa e gli africani smetteranno di emigrare».
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