Quarantatre morti, 20 indagati, decine di testimoni da ascoltare e 13 terabyte di messaggi e documenti da analizzare fin nelle
pieghe più nascoste. A un mese dal crollo del Ponte Morandi, la Procura della Repubblica di Genova e gli investigatori di
Guardia di finanza e Polizia si muovono soprattutto fra queste cifre per accertarne le responsabilità. Ma di qui l'inchiesta
potrebbe salire di livello, anche di molto. Trasformandosi in un atto di accusa per un'intera classe dirigente protagonista
della privatizzazione delle autostrade Iri vent'anni fa (e di tante altre vicende che hanno fatto la storia politica, economica
e finanziaria d'Italia di recente).
Com'è possibile che dal crollo di un viadotto pur importante (parliamo di un'opera di oltre un chilometro, con cui l'autostrada
A10 scavalcava il torrente Polcevera alla periferia ovest di Genova, collegando la Francia del Sud e la Liguria di Ponente
a buona parte d'Italia) si sia arrivati a mettere in discussione un intero sistema?
C'è stata una coincidenza di fattori che mai si era verificata prima. All'oggettiva gravità dell'accaduto e al conseguente
choc collettivo, si deve aggiungere la presenza al governo di forze che finora sono state in tutto o in parte fuori dal sistema
e dai suoi meccanismi collaudati per decenni. Di qui l'avvio immediato delle procedure per “togliere” la concessione al gestore
Autostrade per l'Italia (che ha metà delle autostrade italiane e fa parte del gruppo Atlantia, controllato dalla holding Edizione,
della famiglia Benetton). Ciò ha segnato l'inizio di una guerra politica e legale che si profila lunga (salvo futuri cambi
di governo), potrebbe avere risvolti per i mercati finanziari e nell'immediato rende ancora incerti tempi e modalità di ricostruzione
del viadotto, indispensabile e urgente per Genova e per l'Italia.
Il tutto si accompagna all'atteggiamento della Procura, che si muove con prudenza e determinazione: per esempio, i magistrati
si sono posti fin da subito il problema di come nominare i consulenti tecnici, in un settore in cui Autostrade per l'Italia
(Aspi) ha affidato incarichi praticamente a tutti i professionisti di rilievo (cosa peraltro non strana, perché si parla della
principale stazione appaltante privata del Paese). Un'indagine condotta in questo modo potrebbe quindi arrivare lontano.
Chi sono i 20 indagati attuali?
Premesso che l'elenco di possibili soggetti da indagare consegnato dalla Guardia di finanza alla Procura di Genova comprendeva
30 persone e che l'indagine si potrebbe ancora estendere ad altri, gli attuali indagati sono distribuiti fra Aspi, ministero
delle Infrastrutture e provveditorato Opere pubbliche della Liguria. Cioè fra controllati e controllori.
Sul fronte di Aspi è coinvolta sia la stessa società (in base al Dlgs 231/2001 sulla responsabilità delle persone giuridiche)
sia i suoi vertici operativi: l'amministratore delegato Giovanni Castellucci e il direttore centrale Operations Paolo Berti.
Altri dirigenti di spicco dell'azienda indagati sono Michele Donferri Mitelli (direttore delle manutenzioni), il suo predecessore
Mario Bergamo (che per primo nel 2015 ritenne necessario l'intervento sul Ponte Morandi), Massimo Meliani (responsabile ponti
e gallerie) e Fulvio Di Taddeo. Poi ci sono il direttore del Primo tronco (quello che ha sede a Genova), Stefano Marigliani,
il suo sottoposto Paolo Strazzullo (responsabile del procedimento per i lavori di rinforzo del viadotto che erano stati programmati,
il cosiddetto retrofitting) e il suo predecessore Riccardo Rigacci.
In orbita Aspi anche Emanuele De Angelis e Massimiliano Giacobbi, che per la Spea (società di progettazione e controlli tecnici
dello stesso gruppo) hanno curato il progetto di retrofitting.
Sul fronte ministeriale sono indagati i vertici della direzione generale di vigilanza sulle concessioni autostradali (Dgvca),
la struttura creata nel 2012 per subentrare all'ispettorato Ivca creato nell'per il controllo sui contratti, sulle tariffe
e sui progetti: sono il direttore generale Vincenzo Cinelli e il suo predecessore Mauro Coletta (in carica sin dai tempi dell'Ivca
fino all'anno scorso). Poi c'è Bruno Santoro, capo della divisione tecnico-operativa della Dgvca e membro della commissione
ministeriale d'inchiesta sul crollo, dalla quale si è dovuto dimettere proprio a seguito dell'avviso di garanzia. Della Dgvca
nell'elenco degli indagati ci sono anche Giovanni Proietti e Carmine Testa.
Facevano parte della commissione e ne erano presto usciti anche il dirigente Roberto Ferrazza (revocato dal ministro Danilo
Toninelli) e il docente universitario Antonio Brencich (dimessosi), anch'essi indagati, ma in qualità di membri del Cta (Comitato
tecnico amministrativo del provveditorato alle Opere pubbliche della Liguria) che nel febbraio scorso aveva dato il primo
ok al progetto di retrofitting sia pure esprimendo qualche critica e comunque senza poter effettuare accertamenti propri.
Brencich già dieci anni fa criticò l'idea progettuale di Morandi affermando che gli stralli erano una soluzione superata e
che comportava molti problemi di manutenzione.
Indagato anche l'altro membro esterno del Cta, Mario Servetto, e gli interni Salvatore Buonaccorso e Giuseppe Sisca.
3.Quali reati vengono ipotizzati?
Per Aspi si ipotizza la violazione delle norme antinfortunistiche, perché sul viadotto c'erano cantieri. Per le persone fisiche
si parla di disastro colposo e omicidio stradale plurimo; quest'ultimo reato è comunque nella versione con pene non alte equivalente
al precedente omicidio colposo aggravato per la violazione di norme sulla circolazione stradale (in questo caso, l'articolo
14 del Codice della strada, che impone al gestore di curare manutenzione e sicurezza dell'infrastruttura), perché la legge
41/2016 ha sì introdotto pene più severe, ma solo per le più gravi tra le infrazioni commesse dagli utenti della strada (come
la guida in stato di ebbrezza).
Nessuno dei reati ipotizzati fa rischiare condanne pesanti. Bisognerà vedere se per qualcuno, nel prosieguo delle indagini,
si potranno configurare anche altri illeciti penali.
4. Perché il ponte è crollato?
Si parla soprattutto degli stralli, cioè dei tiranti formati da cavi metallici annegati in calcestruzzo precompresso che caratterizzavano
i tre piloni più alti del ponte, il 9 (crollato il 14 agosto), il 10 e l'11 (i cui stralli erano stati rifatti nel 1993 con
i soldi delle Colombiadi), ubicati sulla sinistra del Polcevera, sopra le case e la ferrovia merci. Sono stati gli stralli
della pila 9 a cedere, ma non è ancora chiaro se lo abbiano fatto autonomamente o dopo un problema all'impalcato (la parte
sospesa sui piloni, su cui si trova la carreggiata). Da una prima valutazione delle testimonianze finora raccolte, pare che
la prima parte a cedere sia stata proprio quella degli stralli.
Dalle immagini filmate da Google Street View lo scorso anno pare di vedere che all'estremità superiore della pila 10 c'era
un rinforzo metallico, assente sulla pila 9.
Di sicuro gli stralli erano usurati, tanto che il 28 aprile Autostrade per l'Italia aveva bandito la gara per i relativi lavori
(retrofitting, cioè messa in opera di un nuovo sistema di tiranti, diverso dal precedente).
Probabilmente i periti nominati dalla Procura di Genova e i membri della commissione ministeriale d'inchiesta si sono già
fatti un'idea più precisa, ma mantengono uno stretto riserbo.
5. Come va interpretata la mail inviata ad Aspi da una società di consulenza la notte dopo il crollo, in cui si parla di difetto
di costruzione del viadotto, che come tale non sarebbe causato da Aspi?
Al momento questo è un giallo: i protagonisti forniscono dichiarazioni contrastanti o non ne danno affatto. Gli inquirenti
sospettano possibili pressioni di Aspi per ottenere una sorta di appoggio assolutorio dalla società cui pochi anni prima uno
studio sulle condizioni del ponte (si veda la risposta alla domanda 11). La mail risponde alla richiesta di un alto dirigente
di Aspi, Enrico Valeri, a un'addetta al settore commerciale della società, Chiara Murano, per recuperare immediatamente quello
studio, cosa altrimenti non facile visto che era Ferragosto. Ma l'addetta ci mette del suo pur non avendo apparentemente competenze
tecniche specifiche: scrive del possibile difetto di costruzione.
Un'eventualità poi negata dalla società, cui Aspi ha però risposto puntualizzando che la mail era stata inviata per conoscenza
anche a un tecnico della società stessa, facendo quindi pensare che l'addetta abbia invece avuto una sorta di avallo tecnico
dai suoi superiori. Nel frattempo pare che Valeri abbia dichiarato ai magistrati che a quanto era scritto nella mail in Aspi
non si era dato alcun peso. Sta di fatto che, già nella sua prima apparizione dopo il crollo (sabato 18 agosto), l'amministratore
delegato di Aspi, Giovanni Castellucci, aveva ipotizzato anche lui un difetto costruttivo (si veda la risposta alla domanda
12).
La vicenda della mail potrebbe essere un'anteprima dei tentativi di scaricarsi reciprocamente le responsabilità da parte di
tutti i protagonisti della vicenda. Una cosa prevedibile e comprensibile, che per quanto riguarda Aspi si è già vista (si
veda la risposta alla domanda 16).
6. Esiste un giallo sui video del crollo?
No: è vero che Autostrade per l'Italia non aveva telecamere di sorveglianza dell'intera struttura (quindi anche in grado di
inquadrare i piloni, cosa che ci si aspetterebbe di trovare, dati l'importanza dell'opera e i rischi di attentato e in caso
di alluvione), ma solo «di traffico» (quelle che servono alla centrale operativa per capire se ci sono code o altre situazioni
anomale nella circolazione) e che le registrazioni di queste ultime si interrompono subito dopo l'inizio del crollo. Ma, per
quel che se ne sa al momento, l'interruzione è spiegabile con il crollo stesso ed elementi più importanti vengono da un paio
dei video di telecamere di sorveglianza delle aziende della zona.
Le immagini delle telecamere «di traffico» servono semai a capire se la parte del ponte che ha ceduto per prima lo abbia fatto
nel momento esatto del passaggio in sua corrispondenza di un mezzo pesante.
In ogni caso, alcuni altri video sono stati acquisiti dagli inquirenti dalle telecamere di sorveglianza di aziende della zona
e pare consentano di vedere qualche dettaglio importante. L'ultimo video è stato acquisito l'11 settembre.
Ci sono poi le parole di più di un testimone oculare.
Tutte queste, in teoria, potrebbero non essere le uniche prove “visive” a disposizione per l'indagine: ci sono anche le immagini
satellitari più sofisticate, che già usate in passato per ricostruire incidenti gravi. Ma stavolta pare non forniscano elementi
utili, perché – pur essendo all'infrarosso – risentono della scarsa visibilità dovuta al forte maltempo che imperversava in
zona al momento del crollo. Un altro possibile elemento del giallo è proprio la cattiva qualità delle immagini di alcune videocamere,
tra cui quelle di Aspi sul traffico, dovuta alla fortissima pioggia. Anche qui nessun mistero: sotto quell'acqua, i primi
soccorritori hanno testimoniato di non essersi immediatamente resi conto di cosa fosse successo, proprio perché non riuscivano
a vedere tutto il ponte.
7. Esiste un giallo sull'analisi delle macerie?
Per ora no: è vero che una delle ditte impegnate nella rimozione delle macerie lavora anche per Autostrade per l'Italia e
che i camion carichi di macerie lasciavano il luogo del crollo senza alcuna scorta delle forze dell'ordine, ma questo di per
sé non preoccupa. Infatti, i periti dei pm hanno filmato tutto e selezionato e catalogato il materiale definito come rilevante,
che è sotto sequestro. Sui camion non scortati, quindi, dovrebbe essere stato caricato solo materiale non rilevante.
8. Quanto credibili sono le ipotesi su maltempo e scoppi?
Praticamente zero: il procuratore capo di Genova, Francesco Cozzi, ha chiarito che finora non sono stati trovati elementi
che facciano pensare a un problema causato da vento, pioggia o fulmini e che è assente qualsiasi traccia di esplosivi collegabile
a un eventuale attentato. Smentita anche l'ipotesi di un fulmine che avrebbe fatto scoppiare bombole di acetilene forse lasciate
dalle imprese impegnate nei lavori che erano già in corso sul viadotto.
9. Quali erano i lavori già in corso?
Da quanto ha dichiarato Autostrade per l'Italia, erano in corso lavori sulla soletta (la parte dell'impalcato che sorregge
l'asfalto). Risulta fossero in corso altre opere minori sullo stesso tratto e che il personale addetto ha dichiarato di aver
ricevuto istruzioni di lavorare senza mai toccare gli stralli, che poi sarebbero stati oggetto del successivo intervento di
retrofitting (cioè montaggio di nuovi elementi a posteriori rispetto alla costruzione).
Nell'ambito di questi lavori, è stato utilizzato anche un “carroponte”, definizione impropria che indica un carrello in grado
di scorrere sotto il ponte per far lavorare tecnici e operai sulla parte inferiore dell'impalcato. Si è indicato anche il
peso di questo macchinario tra le possibili cause del crollo, ma gli esperti sono propensi a escluderlo perché non è la stessa
massa di un carroponte vero e proprio (cioè di una grande gru utilizzata nelle aree portuali più vaste per scaricare i container).
Interpellato dal Sole 24 Ore su come questi lavori potessero essere legati al crollo, il precedente presidente della commissione
ministeriale d'inchiesta, Roberto Ferrazza, ha mostrato di non essere a conoscenza di tali operazioni. Ferrazza aveva presieduto
anche il Cta (Comitato tecnico amministrativo del Provveditorato alle opera pubbliche della Liguria) che aveva dato parere
favorevole al progetto di retrofitting e per le polemiche seguite a tale parere (interpretato come consapevolezza del Cta
di criticità del progetto ma senza dare l'allarme) è stato revocato dalla presidenza della commissione ministeriale.
10. Come erano stati aggiudicati i lavori in corso?
I lavori in corso venivano svolti con lo schema in house, preferito dalle concessionarie autostradali (che sono sempre riuscite
a ottenere deroghe di legge alle quote massime di in house ammissibile) e ritenuto anticoncorrenziale dalla Ue: aggiudicazione
senza gara a un'impresa dello stesso gruppo della concessionaria (Pavimental) e successivo subappalto a imprese minori, con
ribassi anche del 30% (e molto oltre, quando si subappaltano le progettazioni). Visto che i costi si contabilizzano al 100%
del valore di aggiudicazione e questo 30% resta all'interno del gruppo, alle concessionarie conviene così. Ma di questo le
concessionarie non parlano mai. Il vantaggio che i gestori invece evidenziano quando difendono lo schema in house è che, non
essendoci gare, non ci sono i contenziosi che notoriamente le caratterizzano e le procedure sono più rapide. Per questo, ci
sono tempi certi e maggior controllo sull'esecuzione dei lavori.
Ma questo non ha impedito che proprio in lavori affidati in house si verificassero episodi preoccupanti. Il più recente è
il crollo del cavalcavia che si stava rialzando al chilometro 235 dell'A14 a Camerano (Ancona), il 9 marzo 2017, con due morti.
Quaranta morti aveva fatto il 28 luglio 2013 la caduta di un bus dal viadotto Acqualonga sull'A16 presso Avellino, dovuta
probabilmente anche alla mancata sostituzione o risistemazione delle barriere laterali vecchie di 25 anni, nonostante qual
tratto fosse stato proprio in quei mesi oggetto di lavori di riqualificazione previsti dalla convenzione tra Aspi e lo Stato.
Crolli minori e problemi almeno potenzialmente pericolosi (un portale segnaletico sull'A1, cavalcavia e pensiline di caselli)
hanno riguardato lavori in house appaltati a un'azienda gestita da personaggi legati alla camorra che si aggiudicava molte
commesse Aspi una decina di anni fa, prima di circostanziate denunce di un testimone di giustizia, Gennaro Ciliberto, a varie
Procure (si veda anche la risposta alla domanda 16).
11. Si sapeva che il ponte era a rischio di crollo?
Per quel che se ne sa al momento, no. Ma le indagini stanno approfondendo vari spunti. Erano note tante criticità della struttura,
come il degrado del calcestruzzo osservato già nel 1981 (appena 14 anni dopo l'apertura al traffico) dal suo progettista,
Riccardo Morandi, e che poi ha portato anche a rifare gli stralli della sola pila 11 nel 1993 (quando la gestione era ancora
dell'Iri). Si sapeva anche che il traffico era quadruplicato rispetto all'inaugurazione ed era composto da mezzi ben più pesanti,
che oltretutto avevano imposto di sostituire i guard-rail metallici originari con pesanti barriere new jersey di cemento.
Tutto ciò necessitava di cure e spese particolari per la manutenzione, tanto che nel 2003 (gestione Benetton) era stato commissionato
allo studio de Miranda un progetto per la ricostruzione totale del viadotto.
Le criticità vanno anche valutate alla luce del fatto che negli anni Sessanta non c'era molta esperienza su strutture del genere, quindi ogni ponte era una sorta di laboratorio a cielo aperto. Ma, stando alle indiscrezioni filtrate in questi giorni da ambienti investigativi, nei tanti documenti fatti sequestrare dalla Procura di Genova non risultano esserci veri e propri allarmi per il timore di crolli nell'immediato. In relazione a questi documenti, si è parlato più volte di allarmi. A partire da analisi preliminari del 2013 e dagli studi commissionati nel 2017 alla Cesi (gruppo Ismes) e al Politecnico di Milano. Questi ultimi hanno evidenziato perdite di spessore degli stralli originari fino al 20% e hanno suggerito di adottare sensori di monitoraggio costante del comportamento della struttura rispetto alle sollecitazioni causate soprattutto dal traffico. Fino alle cinque lettere con cui Autostrade per l'Italia ha sollecitato al ministero delle Infrastrutture l'ok definitivo per il progetto di retrofitting.
Però, salvo che gli investigatori abbiano in mano altre carte di cui finora non è trapelata l'esistenza (per esempio, non
risultano segnalazioni della Polizia stradale che pattuglia l'autostrada decine di volte al giorno), non emergono veri e propri
allarmi immediati. Le lesioni e gli altri problemi descritti in vari studi sono stati riportati testualmente sui media, riprendendo
quindi termini tecnici suggestivi per i profani; ma nessun commentatore esperto se l'è sentita di dire pubblicamente che si
trattasse di veri e propri allarmi.
Inoltre, le lettere di Aspi appaiono più come sollecitazioni a rispettare le tempistiche previste dalle procedure, una sorta
di messa in mora inviata al ministero, come ce ne sono tante nel mondo degli appalti. Dove è necessario programmare i vari
adempimenti burocratici e gli stanziamenti di fondi.
L'assenza di allarmi potrebbe giustificare il fatto che Aspi, pur essendo a conoscenza di problemi sugli stralli fin dal 2015,
aspetta il 12 ottobre 2017 per portare il progetto di rinforzo davanti al proprio consiglio di amministrazione. Un'attesa
di due anni, della quale i ritardi ministeriali nelle approvazioni del retrofitting sembrano essere solo una coda. In questo
ambito va inquadrato il fatto che Aspi abbia avviato le prequalifiche per la gara per il retrofitting il 28 aprile, cioè prima
dell'ok del ministero al progetto, arrivato solo l'11 giugno successivo. Non se ne può dedurre che fosse un anticipo dovuto
alla fretta per il timore di un crollo, anche perché dalle stesse lettere emerge che Aspi stimava di poter fare effettuare
i lavori non prima del 2019 inoltrato o addirittura di inizio 2020.
Con queste tempistiche, se ci fossero stati veri e propri allarmi, si sarebbe potuta adottare la procedura di somma urgenza
e si sarebbe dovuto chiudere il ponte al traffico. Salvo pensare che Aspi abbia voluto “annegare” gli allarmi nel burocratese
delle lettere e “giocare” con il fattore-tempo, nella consapevolezza di poter addossare la responsabilità di eventuali catastrofi
a ritardi e carenze ministeriali (dovuti anche al fatto che da poco era stata inaugurata la prassi di far dare pareri ai Provveditorati
locali, non accentrando più a Roma l'intera procedura). Un'ipotesi gravissima, che andrebbe eventualmente verificata dagli
investigatori con elementi molto robusti. Come per esempio i messaggi scambiati tra i dirigenti di Aspi e acquisiti dagli
inquirenti sia sui server di posta elettronica aziendali sia sui telefoni cellulari degli interessati.
Su questi si è iniziato a lavorare in profondità negli ultimi giorni.
12. E allora com'è stato possibile arrivare al crollo?
Al momento, l'ipotesi ritenuta più probabile da tecnici qualificati è che non ci fosse un allarme solo perché i controlli
visivi trimestrali obbligatori e quelli strumentali (riflettometrici, con scariche elettriche che attraversano i cavi degli
stralli) non avevano evidenziato rischi. Ma il crollo poi accaduto fa pensare ai tecnici che rischi in realtà ce ne fossero
e che ci sia stato qualche errore nei controlli. Può capitare, perché ci sono insidie sia nel metodo di misurazione sia nel
modo di interpretare i dati.
Quanto al metodo di misurazione, occorre fare in modo da rilevare lo spessore effettivo dei cavi nei punti critici. È lo stesso
motivo per cui non bisogna invece preoccuparsi quando si vede a occhio nudo un ponte degradato, con ferri dell'armatura ormai
lasciati scoperti dalla corrosione del calcestruzzo e ossidati: se ciò avviene in punti non critici, non c'è un pericolo immediato.
Va valutata alla luce di questo la notizia data dalla Procura di Genova secondo cui anche nella parte ovest del Ponte Morandi
(quella senza stralli, alla destra del torrente Polcevera) i periti hanno riscontrato un degrado «rilevante e diffuso»: ciò
significa che non si può pensare di lasciare in piedi quella parte (sarebbe costoso e complesso risanarla e integrarla con
la parte nuova), ma non implica che ci sia un rischio di crollo.
Una volta effettuata la misurazione nei punti giusti, i dati vanno interpretati. Per esempio, alla luce del fatto che la corrosione
più va avanti e più accelera, soprattutto in ambienti vicini al mare come quello del Ponte Morandi e quando il rivestimento
di calcestruzzo è degradato.
A trarre in inganno chi ha effettuato le misurazioni e ne ha interpretato i risultati potrebbe essere stato anche un difetto
costruttivo del viadotto noto in gergo come nido di ghiaia: durante le gettate di calcestruzzo, può capitare che una parte
del materiale venga “impastata male” e che per questo, una volta asciugata, abbia delle cavità che poi favoriscono infiltrazioni
e corrosione in loro corrispondenza. Elementi in grado di influenzare l'attendibilità delle misurazioni e le loro interpretazioni.
Forse a questo alludeva l'amministratore delegato di Aspi, Giovanni Castellucci, nella conferenza stampa convocata a quattro
giorni dal crollo, quando ha parlato appunto di un possibile difetto costruttivo. Che però difficilmente alleggerirebbe la
posizione di Aspi: parliamo di una grossa società che gestisce servizi complessi e di primaria importanza, dovrebbe essere
sufficientemente qualificata anche per affrontare casi difficili. Peraltro, la società ha in gestione il Ponte Morandi da
18 anni, quindi dovrebbe conoscerne tutte le caratteristiche.
13.Imporre limiti di peso ai veicoli ammessi sul viadotto avrebbe evitato il crollo?
No. Sicuramente lo avrebbe ritardato, ma tecnici qualificati stimano che verosimilmente si sarebbero potute guadagnare al
massimo alcune settimane, quindi non si sarebbe potuti comunque arrivare all'inizio dei lavori di retrofitting, previsto per
il 2019 inoltrato.
Si è parlato anche di imporre una distanza minima tra i mezzi pesanti in transito, ma dal punto di vista pratico sarebbe servito
ancora meno: sono limiti impossibili da far rispettare, perché non esistono strumenti di bordo obbligatori per aiutare i conducenti
a misurare la distanza. Ciò determina anche l'inutilità per le forze di polizia di dotarsi di apparecchi (che pure esisterebbero)
per punire le violazioni. La mancata imposizione di limiti, piuttosto, sarà importante per pm e giudici nel valutare il comportamento
di Aspi. Qui potrà pesare anche il fatto che notoriamente la società è consapevole dei problemi causati dal transito di mezzi
pesanti anche in sovraccarico. Tanto da aver messo a punto l'Overload Tutor, un sistema di controllo dinamico (spire annegate
nell'asfalto) che pesa i veicoli in movimento segnalando quelli potenzialmente in sovraccarico a una pattuglia dell Polizia
stradale che si può appostare qualche chilometro più avanti in modo da poter scegliere in modo mirato chi fermare e sottoporre
alla pesatura statica che certifica in modo ufficiale l'eventuale infrazione. Ma di Overload Tutor nel nodo genovese non c'è
mai stata traccia, nonostante ci siano forti pendenze e strutture vecchie e affaticate.
14. Il monitoraggio costante suggerito dal Politecnico avrebbe evitato il crollo?
È controverso. Ogni potenziale allarme rilevato dai sensori viene inviato prima a una centrale operativa esterna, che screma
i tanti possibili falsi allarmi. Solo dopo i dati depurati vengono inviati al gestore della strada, ma a quel punto si sono
“persi” secondi o minuti preziosi. Così in molti casi resterebbero solo pochi secondi per attivare semafori e altra segnaletica
di emergenza che blocchino il traffico. Potrebbe essere troppo tardi, quindi. Ma in altri casi i sensori potrebbero essere
efficaci, dando un allarme sufficientemente anticipato. Nel caso del Ponte Morandi, la Procura di Genova sta valutando il
fatto che Aspi avesse comunque attivato in via sperimentale sistemi di monitoraggio su sei cavalcavia tra Emilia, Romagna
e Polesine e che quanto al Ponte Morandi volesse adottare un sistema diverso da quello suggerito dal Politecnico di Milano.
15.Aspi aveva un interesse a nascondere rischi di crollo per evitare di chiudere l'autostrada o di restringere la carreggiata?
Al momento, non si può arrivare a pensare una cosa così grave. È vero che un gestore autostradale è sempre restio a chiudere
un proprio tratto, per poter continuare ad incassare i pedaggi. Ma è altrettanto vero che negli ultimi anni sono diventati
più frequenti i casi in cui lo stesso gestore consiglia itinerari alternativi quando ci sono problemi grossi su un suo tratto.
Inoltre, nel caso di Genova, verosimilmente gli incassi non sarebbero cambiati molto nemmeno in caso di restringimento di
carreggiata. Infatti, l'area genovese è stretta fra colline, montagne e mare, quindi non ha una vera viabilità alternativa.
Così la gran parte degli utenti avrebbe evitato di uscire dall'autostrada anche in presenza delle lunghe code causate da eventuali
restringimenti della carreggiata decisi per alleggerire i carichi sul Ponte Morandi. Piuttosto, quando ci sono lavori in aree
così problematiche, ci sono spesso proteste della popolazione e pressioni da parte delle autorità locali. Così le concessionarie
cercano di tenere aperte le autostrade il più possibile, anche quando proteste e pressioni non ci sono ancora state. Proprio
per i lavori che erano già in corso in zona Polcevera almeno una delle aziende coinvolte aveva lamentato mesi prima del crollo
le continue «interferenze» del traffico: era difficile ottenere che l'autostrada venisse chiusa, persino di notte. Forse è
stato permesso anche il transito di trasporti eccezionali.
Si potrebbe al limite pensare che una convenienza a non chiudere il viadotto al traffico l'avesse il direttore di tronco,
perché ogni chiusura può comportare per questi dirigenti una penalizzazione economica. Un meccanismo che incentiva a offrire
un servizio migliore, ma che - come buona parte delle incentivazioni per i manager – può creare distorsioni. Però, vista la
sua responsabilità decisionale diretta in tali questioni, il direttore di tronco sapeva benissimo che, se ci fosse stato pericolo,
lui sarebbe stato il primo a rischiare pesanti conseguenze penali. Quindi, non sembra probabile che si sia preso coscientemente
il rischio di far crollare il ponte.
16. Su quali aspetti si concentreranno ora gli investigatori?
Si andranno ad approfondire sia il ruolo di Aspi sia quello del ministero delle Infrastrutture. Non solo sulla base di documenti
e testimonianze già acquisiti e di quelli ancora da acquisire, ma anche tenendo conto di elementi di contesto da cui possono
nascere sospetti. Altri elementi, invece, sono più utili all'opinione pubblica per capire un mondo di cui per decenni si è
parlato sempre troppo poco. Sul fronte Aspi, ci sono innanzitutto da delineare i rapporti effettivi tra gli uffici centrali
di Roma e la direzione di tronco di Genova. Il problema si è posto già nel caso della tragedia dei bus precipitato dal viadotto
Acqualonga sull'A16 presso Avellino il 28 luglio 2013 (40 morti), in cui sono imputati sia i vertici aziendali nazionali sia
quelli del tronco di Cassino. Anche a Genova si è lasciato che l'emergenza fosse gestita dal direttore di tronco anche a livello
di comunicazione, delegandolo per giorni a essere l'unica voce aziendale a fronteggiare l'assalto del media.
Il caso di Genova appare però più complesso: per l'entità dei lavori di retrofitting (circa 26 milioni, contando anche le
somme a disposizione) il progetto è passato anche dal consiglio di amministrazione, che però non ha competenze tecniche. Inoltre,
pare che ci siano stati movimenti di personale tra varie sedi proprio per seguire il progetto di retrofitting. Da vagliare
anche i rapporti tra Aspi e la società in house che faceva i controlli sul viadotto e ha progettato il retrofitting (la Spea),
anche per capire perché la validazione del progetto sia stata fatta dalla stessa Aspi e non da un organismo di certificazione
terzo (come si sta facendo invece ora con la ricostruzione del viadotto, per la quale è stato chiesto un intervento del Rina).
Sul fronte ministeriale, invece, si vedranno i rapporti tra Provveditorato locale e Direzione generale vigilanza concessioni
autostradali (Dgvca). Alla luce non solo della nuova prassi di coinvolgere la struttura locale nel dare pareri sulle opere
da autorizzare, ma anche delle effettive possibilità di controllo da parte di uffici non solo sotto organico (al personale
arrivato dal vecchio ispettorato dell'Anas mantenendo lo stipendio più alto di quello ministeriale si affiancavano ispettori
precari non riconfermati) ma che avevano operato per anni in modo discutibile (controlli sul campo ridotti ad aspetti di dettaglio,
tralasciando quelli che richiederebbero di deviare il traffico). Gli investigatori hanno acquisito anche i documenti che risalgono
a quando la vigilanza la faceva l'Anas.
Su entrambi i fronti (di Aspi che ha redatto il progetto e del ministero che lo ha controllato) ci sarà poi da valutare la
coerenza tra il progetto di retrofitting, i suoi scopi e gli interventi precedenti. Fonti qualificate puntano l'attenzione
sul fatto che negli ultimi anni erano già stati fatti interventi sui bordi laterali della soletta, che sarebbero stati toccati
anche dal retrofitting. Duplicazione dettata da urgenze, cattiva pianificazione o lavori contabilizzati per intero ma svolti
male o parzialmente? Da verificare anche la composizione della spesa prevista dal progetto: circa metà sembrerebbe riguardare
lavori non strutturali.
Quest'ultimo aspetto porta a considerazioni generali che forse interessano più l'opinione pubblica che i magistrati. Come
le ripetute lamentele di imprese serie sul fatto che molti lavori autostradali si limitano a una sorta di cosmesi superficiale
senza un risanamento profondo o un rifacimento completo delle strutture (che solo dopo vanno protette da trattamenti superficiali
in grado di conservarle al meglio).
In questo quadro, tornano le denunce del testimone di giustizia Gennaro Ciliberto alla Procura di Roma, che intorno al 2010
ha parlato di lavori autostradali fatti male, anche perché affidati a imprese riconducibili ad ambienti di camorra. In effetti,
alcuni ci sono stati alcuni crolli, un cavalcavia è stato sequestrato perché fosse rimesso in sicurezza e su altri sono stati
svolte verifiche. Secondo Ciliberto, uno dei dirigenti Aspi che sarebbe stato quantomeno al corrente di tutto era Michele
Donferri Mitelli, capo della manutenzione di Aspi e firmatario delle lettere di sollecito al ministero sul retrofitting del
Ponte Morandi (ora indagato a Genova). Al momento, solo un dipendente Aspi risulta essere stato trasferito in una società
più piccola dello stesso gruppo. Su Donferri, invece, non risultano in corso né indagini della Procura di Roma né interventi
disciplinari.
Più in generale, resterà senza risposta la domanda di fondo: se i controlli del ministero sono sempre stati blandi, è stato solo per le normali carenze della pubblica amministrazione o anche perché la collusione tra la politica anni Novanta e i gruppi economici che hanno aderito alle privatizzazioni (tra cui i Benetton per le autostrade) prevedeva un tacito accordo? E qualche dirigente che aveva il compito di controllare ha fatto davvero tutto il suo dovere o , magari vedendo la collusione, ha pensato di approfittarne per ricavare una sua parte in termini di potere o di altro?
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