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Furti di identità in Italia. Tutti (o quasi) li temono ma pochi li conoscono

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Questo articolo è stato pubblicato il 19 gennaio 2011 alle ore 17:28.

Un fenomeno di cui si parla, spesso, ma evidentemente non abbastanza. Perché interessa potenzialmente un italiano su quattro ed è poco percepito come minaccia da coloro che ne sono le possibili vittime. Le frodi d’identità, all’inglese “identity theft”, sono un problema aperto, in crescita anche in Italia e, stando a quanto emerge da una ricerca presentata oggi a Milano, sottovaluto rispetto ai paesi anglosassoni. A fotografare lo stato dell’arte, mettendo sotto la lente di ingrandimento le abitudini dei consumatori, ci hanno pensato l’Unicri (l’Agenzia Internazionale delle Nazioni Unite per la Ricerca sul Crimine e la Giustizia) e CPP Italia, società inglese specializzata nel campo dei servizi alla famiglia e prima ad aver lanciato in Inghilterra, nel 2005, un prodotto/servizio - Identity Protection, oggi in vendita anche sul mercato italiano – pensato per bloccare preventivamente la frode sul nascere.

Per capire l’impatto economico di questo fenomeno su scala globale basta qualche numero. Negli Usa si è calcolato che i furti di identità abbiano generato perdite pari a circa 54 miliardi di dollari nel 2009 (dati Javelin Research) e coinvolto circa 11 milioni di persone, con perdite medie unitarie di circa 5.000 dollari. In Europa la dimensione del problema è di entità minore ma le cifre in gioco sono comunque rilevanti, con il Regno Unito a lamentare per i primi 10 mesi del 2010 un danno economico superiore ai tre miliardi di euro (oltre 160mila casi) e l’Italia a stimare (Abi) per il 2009 un buco compreso fra gli 1,6 e i due miliardi di euro. Altri parametri che la ricerca ha messo in evidenza per descrivere compiutamente lo scenario di questa faccia del cyber crimine riguardano le mancate denuncie delle vittime: circa il 25-30% dei casi registrati negli Usa non portano infatti ad azioni di alcun genere, e questo perché, in più della metà delle occasioni, i soggetti colpiti impiegano oltre tre mesi prima di scoprire (solitamente attraverso un controllo del proprio estratto conto bancario) di aver subìto una frode a loro nome derivante dal furto della propria identità digitale.

La ricerca ha preso in esame un campione significativo di 800 individui fra i 25 e i 60 anni e ha messo innanzitutto in evidenza come il 25,9% di questi sia stato esposto a una potenziale frode di identità nel corso dell’ultimo anno. Clonazione della carta credito o della tessera bancomat, addebiti per prodotti e servizi anche via internet non richiesti, inconsapevoli adesioni a contratti per via telematica o telefonica: questi i principali “incidenti” in cui sono intercorsi una buona fetta di italiani nel recente passato. Non esiste però, questo un altro punto spesso ignorato e invece sottolineato nello studio, una sola tipologia di furto di identità, ma ben cinque, dal business/commerciale al finanziario, dalla clonazione ai dati sensibili in generale fino all’azione criminale vera e propria.

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Tags Correlati: Abi | Cpp Italia | Dati di bilancio | Europa | Identity Protection | Onu | Unicri | Walter Bruschi

 

Agli elevati timori corrisponde un’altrettanta consapevolezza da parte dei consumatori: l’80% si dice preoccupato e il 38,9% degli intervistati ha dichiarato infatti di essere molto preoccupato per i furti di identità,con le donne (la percentuale sale al 42,3%) a meritarsi il titolo di soggetti fra i più attenti. Alle buone intenzioni, però, non sembrano seguire fatti concreti, a cominciare dall’utilizzo di sistemi più avanzati del classico antivirus, anche per una limitata conoscenza della natura del fenomeno e delle implicazioni (cosa fare, chi contattare, come tutelarsi…) che questo si porta dietro. Meno del 4% del campione ha confermato di essere molto informato sul tema dai media e questo dato fa pendant con quello che vede la Rete essere il luogo preferito (per lo meno dal 48% degli intervistati) dove lasciare informazioni personali o addirittura (si scende al 17% dei casi) dove pubblicare in modo sistematico anche indirizzo e-mail e indirizzo abitativo.

C’è in buona sostanza, come ha osservato al Sole24ore.com Walter Bruschi, Managing Director di Cpp Italia, un’evidente dicotomia «fra percezione dei rischi e reale conoscenza del fenomeno, contraddizione che si manifesta anche nel limitato utilizzo delle carte di credito per gli acquisti su internet, il canale preferenziale dove gli utenti interagiscono e comunicano rendendo pubblici i loro dati personali». Il rischio che i dati personali di chiunque siano a rischio di furto è quindi un qualcosa di reale e non può certo passare la linea del “mal comune mezzo gaudio” per giustificare le ancora scarse azioni di prevenzione condotte a vario titolo fino a oggi. Non a caso gli autori della ricerca, i vari esperti che convenuti alla presentazione dello studio alla stampa e lo stesso Bruschi hanno parlato a vari livelli della necessità di intervenire sulla percezione del problema, modificando pregiudizi e superando gli ostacoli eretti della disinformazione. Prima ancora di adottare, e questo è comunque un passaggio obbligato, adeguate soluzioni, tecnologiche e non, per proteggersi dalle «aziende criminali» (così le ha definite il manager di Cpp) che sfruttano internet, le chat e i social network per effettuare il cosiddetto “phishing” nei conti bancari e sottoporre finte “offerte di lavoro” o finte sottoscrizioni per entrare in possesso dei dati personali dell’utente.

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