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Questo articolo è stato pubblicato il 30 giugno 2014 alle ore 14:36.
L'ultima modifica è del 01 luglio 2014 alle ore 10:14.

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Una ricerca condotta all'insaputa dei diretti interessati, e cioè 689.003 utenti che postavano tranquillamente commenti e segnalazioni varie sul loro profilo di Facebook. Lo studio rivelato dalla rivista scentifica Proceedings of the National Academy of Science (Pnas) risale al 2012 e fu condotto dall'11 al 18 gennaio, quando per l'appunto gli ingegneri di Mark Zuckerberg e alcuni ricercatori della Cornell University e della University of California manipolarono i contenuti di circa 700mila post. A quale fine? Verificare come e quanto le emozioni si possono trasferire ad altre persone, senza esservi accanto e senza interagire direttamente con loro, rendendo lo stato d'animo di un singolo individuo potenzialmente contagioso. Anche online.

Per raggiungere lo scopo, questo dice il magazine Usa, gli esperti hanno messo mano agli algoritmi che determinano cosa viene mostrato nella bacheca degli utenti, divisi per questo esperimento in due gruppi. Ad ognuno dei due gruppi venivano mostrati post con accezione positiva (con parole come amore, bello e dolce) e negativa (con termini quali antipatico, dolore e brutto) e questi hanno reagito alle sollecitazioni pubblicando messaggi dal contenuto negativo o positivo a seconda dei post ricevuti. I risultati frutto dall'opera di condizionamento hanno mostrato in buona sostanza come riducendo artificialmentele espressioni positive gli utenti abbiano registrato molti meno messaggi positivi e aumentato la loro negatività. Viceversa, quando ad essere manipolati ad arte sono stati i messaggi negativi, è accaduto esattamene il contrario.

Nessuna violazione dei termini di servizio
Cosa ha detto, in definitiva, la ricerca? L'assunto a cui è giunto il Pnas, questo è certo, apre nuovi orizzonti nella letteratura legata al fenomeno social: le emozioni espresse su Facebook influenzano le nostre emozioni e questo costituisce la prova sperimentale che è possibile organizzare un contagio di massa attraverso le reti sociali. Gli stati emotivi si possono cioè trasmettere su larga scala, inducendo altre persone a provare le stesse emozioni senza che ne siano realmente consapevoli. Gli amici di Facebook reagiscono nello stesso modo, adattandosi ai sentimenti prevalenti nella propria cerchia. Questo il messaggio essenziale che si può derivare dallo studio.

Il punto, però, è anche un altro, e cioè come Facebook ha condotto lo studio all'insaputa degli utenti. Ha violato i termini del servizio? A quanto pare no, perchè ad essere manipolato è stato essenzialmente il flusso dei commenti (il cosidetto "newsfeed") postati sul social network, mentre i post oggetto di intervento non erano visibilmente modificati ed erano correttamente visualizzati sul proprio profilo. Le polemiche, sul modus operandi tenuto dalla compagnia di Menlo Park, non sono comunque mancate. É stata rispettata, questa l'accusa rivolta a Facebook, la componente etica del rapporto in essere con gli utenti? E che valenza (formale) può avere uno studio realizzabile senza il consenso esplicito dei diretti interessati?

La risposta alle critiche
É vero anche, come alcuni hanno fatto puntualmente notare, che al momento di accettare i termini d'uso del social network si accetta anche la clausola che consente agli amministratori di Facebook operazioni tecniche sul sistema che comprendono non solo gli interventi per risolvere eventuali problemi anche l'esame di dati, test e ricerche. Liberando la società da qualsiasi obbligo di preventiva comunicazione in tal senso. Anche uno dei co-autori dello studio, Adam D.I. Kramer, del resto, attraverso un post pubblicato sul proprio profilo, ha sì ammesso come le motivazioni alla base della ricerca non fossero chiaramente espresse ma ha anche ricordato come l'operazione sia stata condotta per migliorare il prodotto, per studiare in modo particolare l'influenza dei commenti positivi e negativi, sottolineando come questi ultimi possano indurre nelle persone sensazioni di esclusione, tali anche da spingerle a evitare l'uso del social network.

Il dibattito sulla questione rimane ovviamente aperto ma intanto arriva da Kapersky Lab un dato che certifica come Facebook sia il bersaglio preferito dai criminali informatici specializzati nel furto di account sui social network: secondo le statistiche della società russa, infatti, nel primo trimestre del 2014 i falsi siti che hanno riprodotto gli account del social network rappresentano il 10,8% dei casi di attivazione dell'anti-phishing euristico. Solo le finte pagine di Yahoo, si legge in una nota, hanno generato più segnalazioni di phishing, lasciando comunque al primo posto Facebook tra i social network presi di mira più frequentemente.

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