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Questo articolo è stato pubblicato il 16 luglio 2014 alle ore 07:28.
L'ultima modifica è del 16 luglio 2014 alle ore 18:06.

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Leader si nasce o si diventa? E cosa vuol dire essere un buon leader? Dare ordini ed assicurarsi che vengano eseguiti? Oppure ascoltare il team, restare aperto alle idee altrui e cercare di stimolare la crescita dei sottoposti? Si può migliorare il proprio stile di leadership migliorando così l'efficienza dell'organizzazione? Queste domande sono sempre più frequenti nelle aziende ma anche nel mondo politico, in un contesto segnato da una profonda crisi economica che richiede capacità gestionali e di problem solving elevate, ma anche il carisma e la dote di saper guidare un gruppo.

Quello sulla leadership in psicologia sociale è un filone di studi molto ampio, che ha portato al moltiplicarsi di definizioni e di teorie indissolubilmente legate ai momenti storici in cui sono state elaborate. Ancora più di recente, però, il boom delle neuroscienze anche presso il grande pubblico ha portato a parlare di come funziona, in concreto, il cervello di un leader. Alcuni dati iniziano ad emergere.

Esiste il gene della leadership? Se ne è parlato molto e tutto nasce da uno studio, pubblicato poco più di un anno fa nella rivista Leadersh Quarterly. In questa ricerca, effettuata su gemelli, si parla di una certa quota di ereditabilità della disposizione a essere leader sulla base dell'associazione di questo ruolo con la presenza di una variante del gene per il recettore dell'acetilcolina, un importante neurotrasmettitore associato a caratteristiche di personalità quali la persistenza nel perseguire un determinato obiettivo. «Come per molte altre associazioni complesse - spiega il neuroscienziato sociale Salvatore Maria Aglioti del Dipartimento di Psicologia Sapienza Università di Roma e Fondazione Santa Lucia - non significa in alcun modo che quel determinato gene determini il ruolo che una persona assumerà, perché una conformazione biologica interagisce sempre con l'esperienza di ciascuno. Il rapporto tra la natura e la cultura è fondamentale per spiegare fenomeni multidimensionali quali quello della leadership». Cautela, dunque, con le semplificazioni. Nel 2012, tanto per fare un esempio, è stato pubblicato un libro dal titolo Neuroleadership ed esistono oggi vere e proprie tecniche di formazione che si ispirano a questo tipo di approccio. In realtà però, senza nulla togliere alla possibile efficacia di questi training, si tratta più che altro di metafore, in cui il prefisso "neuro" poco ha a che vedere con l'effettivo funzionamento dei circuiti neurali o con la ricerca neuroscientifica, mentre molto ha a che fare con la formazione manageriale e le tecniche di coaching, per esempio.

Ma come funziona il cervello del leader? Il funzionamento neuronale di chi guida un gruppo non ha niente di speciale? Non è così e dei dati oggettivi iniziano ad emergere. «Un modo relativamente semplice di concettualizzare le peculiarità del leader è quello di paragonarlo ad un tipo di esperto così come un atleta d'elite, un musicista», spiega il professor Aglioti. «In quest'ottica – sottolinea - è del tutto plausibile che il leader abbia sviluppato specifici sistemi cerebrali». Una recente ricerca realizzata dalla Case Western Reserve Univeristy di Cleveland ha individuato due reti neurali interconnesse che fanno riferimento a due stili specifici di leadership: un sistema (Task Positive Network) coinvolto nella risoluzione dei problemi, alla focalizzazione dell'attenzione, alla capacità di prendere le decisioni e di controllare le azioni e un altro sistema (Default Mode Network) che ha invece più a che fare con i comportamenti etici e sociali, con la consapevolezza di sé, con la cognizioni sociale, con la creatività e con la morale. Di fatto di due tipologie di leader, quello orientato alla risoluzione dei problemi (task leader) e quello maggiormente attento alla dimensione emozionale e relazionale e quindi al suo team (socio-emotional leader), si parlava dagli anni Cinquanta. La novità è che non sono stili di persone diverse, ma reti neurali specifiche connesse tra loro presenti in ognuno di noi e che funzionano in maniera alternata.

A capo dello studio, il professor Richard Boyatzis, uno dei massimi esperti al mondo di intelligenza e laedership emotive e Distinguished Professor di Comportamento Organizzativo, Psicologia e Scienze Cognitive alla Case Western Reserve University : «Non sappiamo esattamente come funzionino le menti dei leader – ci spiega il professore – ma quello che riteniamo è che chi riesce ad essere efficace nella relazione con gli altri, sia dal punto di vista cognitivo che dal punto di vista creativo e che mostre preoccupazione etica e morale per il prossimo abbia imparato come passare da una rete all'altra (dal task positive network al default mode network)».

Il leader, dunque, sa usare entrambi i sistemi. E l'ipotesi è che questo passaggio da una rete all'altra sia anche molto veloce: il professore e il suo staff hanno appena iniziato un nuovo studio che vuole dimostrare che i leader realmente efficaci sanno spostarsi da un sistema all'altro in un solo secondo e sono in grado di identificare quale dei due sistemi utilizzare in maniera inconscia. Insomma, se parlare di gene della leadership è una semplificazione, studiare la modalità di pensiero di un leader è possibile e, magari anche allenarle. Intanto, i primi risultati mostrano che la flessibilità del pensiero gioca un ruolo primario per l'efficacia della leadership. E qualcosa in questo senso lo dicono, per esempio, anche le differenze che si sono viste tra come ragiona un imprenditore e come ragiona un manager.

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