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Questo articolo è stato pubblicato il 23 novembre 2014 alle ore 08:13.
L'ultima modifica è del 24 novembre 2014 alle ore 16:08.

La cosa bella di parlare con Michael Seibel, oltre alla risata contagiosa, è che non ragiona per luoghi comuni. A una domanda su quali sono i trend tecnologici risponde perplesso: «Non si può indovinare che cosa sarà popolare tra una decina di anni. Vediamo aziende di ogni tipo e oltre alle idee ci interessa la composizione del team». Seibel è partner di Y Combinator, uno degli acceleratori più ambiti della Silicon Valley. Funziona così: le application possono essere fatte due volte all'anno. YC si prende il 7% delle azienda scelte e investe 120mila dollari. Il programma dura soltanto 3 mesi ma sono molto intensi. Si incontrano le principali aziende, in poco tempo si ha un riscontro della bontà del proprio business e può capitare che a tenere lezione ci sia Mark Zuckerberg. Infine c'è un pitch di 2 minuti dove si prova ad attirare l'attenzione dei venture capital.
«No, non mi piace ragionare per trend – insiste –. Posso dire che cosa vedo. Primo: il trionfo dell'analytics. Oggi le startup usano i dati statistici per monitorare le reazioni degli utenti e capire se stanno andando nella giusta direzione. Quando devono lanciare una nuova piattaforma partono da una popolazione limitata. In base al responso, valutano se andare avanti o no». Seibel dice che questo «è il trionfo del metodo scientifico nel realizzare i prodotti, che in un certo senso prende il posto dell'arte. Basta pensare alla differenza tra la realizzazione del primo iPhone e l'iPhone 6».
Secondo: «Oggi i fondatori portano i consumatori nell'ufficio e li osservano mentre usano i loro prodotti. Per questo sono convinto che le startup che hanno nel board persone con competenze tecniche abbiano un vantaggio competitivo». YC guarda con favore le start up dove tra i fondatori ci sono ingegneri. L'altra cosa che conta è il livello di conoscenza tra i fondatori: quando è inferiore ai 6 mesi nel 75% dei casi la startup non supera i primi 3 mesi di vita.
Il partner di YC – a sua volta ex startupper, 31 anni, viene da Brooklyn – è appena rientrato da un viaggio in Europa, Italia compresa. «La cosa più incredibile è come sia più facile per noi americani pensare all'Europa come una unica entità: una sola moneta, un solo mercato, nessun confine. Un mercato più grande dell'America. Voi europei non ragionate così. Alle startup italiane dico: non fermatevi al mercato domestico, consideratevi europei. Avete un enorme vantaggio: conoscete meglio di chiunque altro i vostri consumatori».
Qui Seibel fa l'esempio di Uber in negativo, perché applica lo stesso modello a ogni contesto. Invece per ogni territorio esistono diverse leggi, resistenze, specificità culturali.
Per il momento «le startup europee hanno bisogno dei capitali americani per decollare e non c'è nulla di male se questo avviene fuori dagli Stati Uniti. Ci vogliono le exit. Credo che l'Europa possa fare molto nei prossimi 10 anni: avete un mercato importante e meno competizione rispetto alla West Coast». Le differenze tra i due continenti sono enormi. Sul fronte degli investimenti, oltre al venture capital maturo il vantaggio degli Stati Uniti è rappresentato dall'abitudine consolidata da parte delle grandi aziende a investire nelle startup. Google, Facebook e Yahoo nell'ultimo anno hanno speso miliardi, con valutazioni che fanno dibattere gli esperti se questi siano segnali dell'arrivo di una nuova bolla dopo quella del 2000 e quella del 2007. Fatto sta che più capitale c'è, più le aziende innovative vengono valutate, mentre in Italia le valutazioni delle startup sono ancora basse.
«Investire non è un gioco, bisogna conoscere bene i meccanismi. Aver ricevuto investimenti non significa affatto aver vinto, anzi: più soldi equivalgono a maggiori responsabilità, e al crescere della "valuation" dell'azienda, crescono anche le aspettative degli investitori. La cosa importante è capire chi riuscirà a creare una azienda di valore, capace di crescere e riuscire ad andare in borsa, od essere acquisita da un'altra più grande» spiega Simone Brunozzi, originario di Assisi ma da tempo negli Usa, 37 anni, ex Amazon e ora vice president e cto di VMware. Insieme a Stefano Bernardi, 28 anni, e Francesco Simoneschi, 30 – entrambi romani, ex startupper, vivono in California – ha messo in piedi "Mission and market", un fondo di investimento a guida italiana con base a San Francisco. L'obiettivo è «creare un modello di riferimento per investimenti provenienti da Italia ed Europa verso startup di alto profilo in Silicon Valley».
«Abbiamo appena chiuso il primo round da mezzo milione di dollari e abbiamo commitment per oltre 1 milione, ma vogliamo arrivare a 2 milioni - dice Simoneschi -. Il fondo continuerà la sua attività di fund raising nei prossimi mesi». Il primo investimento arriverà a fine 2014 e, per quanto sui nomi ci sia massimo riserbo, «stanno partecipando imprenditori, executive e angel investor italiani da varie parti del mondo».
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