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Questo articolo è stato pubblicato il 23 novembre 2014 alle ore 08:13.
L'ultima modifica è del 24 novembre 2014 alle ore 17:25.

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Nella foto il Golden Gate Bridge a San Francisco (Corbis)Nella foto il Golden Gate Bridge a San Francisco (Corbis)

«Investo su una start up solo se posso andare a trovarla in moto». Tutto l'orgoglio della Silicon Valley in una frase. A Randy Komisar piace provocare. D'altronde, qui è una star. Oggi lavora nel fondo di venture capital Kpcb, ma è passato da Apple, fondato start up, fatto il ceo e il cfo. Il suo ultimo investimento è Nest, il termostato intelligente poi venduto da Google per 3,2 miliardi di dollari. Oggi siede nel board e quella sì che è stata una exit di successo. Le decine di startupper giunte all'università di Stanford per l'Intel global challenge, competizione annuale organizzata dall'azienda di Santa Clara, lo ascoltano. Lui non è qui per rassicurarli, anzi, si definisce "choosy".

«Di Silicon Valley ce n'è una sola al mondo e sapete perché? Perché si è costruita in 70 anni. C'è una porta girevole tra università e imprese. Ci sono gli investimenti». Nessuna illusione però: «A San Francisco tutti vogliono un biglietto con scritto ceo in tasca. La verità è che è molto difficile. Se venite qui fatelo per le giuste ragioni: la possibilità, per i migliori, di entrare in un network. Investirò su di voi soltanto quando qualcuno mi avrà parlato di voi».

Exit, execution, network, intro, hire, fire. Sono parole che tornano in maniera ossessiva nelle conversazioni che si possono avere in questo strano pezzo di America da San Francisco in giù. Perché la Silicon Valley è anche una cultura, mitizzata dai suoi stessi protagonisti.

I numeri gli danno ragione. Su migliaia di start up solo una manciata sopravvive. Eppure ancora oggi per chi vuole fare un'impresa tecnologica la Silicon Valley è il migliore posto al mondo per almeno due motivi: accesso al capitale e al mercato americano. Certo, bisogna stare alla larga dalle letture semplicistiche. Qui ci sono opportunità ma anche grandissima concorrenza e soprattutto un network dove è difficile entrare se non ti sei laureato a Stanford o Berkeley.

Le storie di successo aiutano. Fabrizio Capobianco, 43 anni, è arrivato qui nel 1999 e nota che «negli ultimi anni c'è stato un aumento esponenziale di start up di qualità, anche italiane, ne incontro 2 al mese». Con la sua Funambol, attiva nel cloud computing per le compagnie telefoniche, è stato pioniere di un modello virtuoso nel rapporto tra Italia e Silicon Valley. Su un centinaio di dipendenti 70 sono a Pavia, dove si è laureato: «Negli Stati Uniti abbiamo il business development, in Italia la ricerca e sviluppo». Capobianco ora ha avviato anche TOK.tv, piattaforma per la condivisione live a distanza di eventi sportivi che lavora anche con la Juve, e anche in questo caso 11 persone su 13 stanno in Italia. Una scelta che ha diverse ragioni: «L'Italia è uno dei posti migliori al mondo per fare software. Appena arrivai fui molto colpito dal fatto che il mio team a Pavia non avesse nulla da invidiare agli ingegneri informatici che incontravo, specie per quanto riguarda creatività e versatilità. Gli italiani sono conosciuti nel mondo per il design. Ma il software è design. Ci manca il marketing, la capacità di raccontare questa nostra capacità nel mondo». Un altro testimone di questo modello è Cosimo Palmisano di Decysion, azienda nata a Latina che oggi ha uffici anche a Milano e Stamford (Connecticut) e offre una soluzione di business intelligence in grado di accelerare la fase decisionale delle aziende. Decysion pochi mesi fa ha registrato il più grande finanziamento per un'italiana da parte di un fondo estero (22 milioni di dollari) e Palmisano è convinto che «il software può diventare un pezzo di made in Italy».

Anche perché qui un ingegnere informatico, anche appena laureato, ha di fronte a sé tutti i principali colossi della tecnologia e può ambire a uno stipendio di 120mila dollari lordi l'anno. Per avere i più bravi bisogna offrire di più. Mentre gli italiani costano meno. «Costruire il team è difficilissimo - testimonia Andrea Calcagno, 36 anni, ceo di Cloud4Wi (provider di servizi cloud e wifi), che da marzo, dopo aver ricevuto 4 milioni in Italia da United Ventures, si è trasferito qui per avviare il business americano -. La ricerca del personale prende il 35% del tempo e spesso sono i lavoratori a scegliere l'azienda, non il contrario. Durante il colloquio è l'azienda a vendere il suo progetto». Cloud4Wi ha 16 dipendenti a Pisa, dove è nata, 14 a San Francisco, 2 a Londra e 2 a Singapore

«Il modello ideale è quello della fertilizzazione in California mantenendo la ricerca in Italia – spiega il Console italiano a San Francisco, Mauro Battocchi –. Per garantire questo flusso abbiamo bisogno di exit di successo, in modo che cresca la reputazione del nostro Paese e i venture capital inizino a mapparci». L'esempio è Israele, che da tempo ha investito fino a diventare uno dei migliori posti al mondo per far decollare un'azienda innovativa. Basta pensare a Waze. Nasce nel 2008 a Tel Aviv, prende i primi finanziamenti, apre un ufficio a Palo Alto e nel 2013 viene comprata da Google per 1,1 miliardi di dollari. Oggi ha 280 dipendenti, divisi a metà tra Israele e California. È evidente che non è un modello che si improvvisa. E che un ruolo decisivo è fatto dalla capacità di investimento e relazione sul territorio. I venture capital israeliani hanno uffici sulla West Coast e un dialogo costante con quelli americani. Anche la Francia, con le dovute proporzioni, si muove su questa linea.

L'Italia è molto lontana, anche se ora ha una normativa che semplifica la vita a chi vuole fare o investire in start up e registra passi in avanti anche nel minuscolo mercato dei fondi di investimento. C'è un'opportunità specifica offerta dall'arrivo di internet su ogni genere di oggetti. Stefano Marzani sta avviando il business della sua dQuid negli Usa dopo l'incubazione in Plug&Play. dQuid è un corporate spinoff di Reggio Emilia: ha realizzato una piattaforma che connette tutti gli oggetti agli smartphone e a internet e sta lavorando con alcuni big della Bay Area. «Abbiamo una capacità di manifattura incredibile che le nostre imprese devono cogliere – dice –. Solo che va fatto in fretta, perché qui si corre».
@lucasalvioli

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