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L'Europa ha sempre più paura dei fondi sovrani

di Antonio Pollio Salimbeni

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27 luglio 2007

Mezza Europa ha sempre più paura delle incursioni dei ‘fondi sovrani' cinesi, russi e delle petromonarchie nel capitale e nei consigli di amministrazione di importanti società finanziarie e non. La campagna rilanciata in maggio dalla China Development Bank con l'acquisizione di una quota importante del fondo ‘private equity' americano Blackstone (che tra l'altro controlla il 4,5% di Deutsche Telekom) aumenta di intensità. Il governo di Pechino ha appena annunciato che d'ora in poi le assicurazioni potranno investire all'estero fino al 15% della loro liquidità (calcolata in 50 miliardi di dollari) e non più fino al 5%. Un fiume di denaro che non prenderà la via dei titoli federali americani ma farà parte del grande flusso che finanzia scalate, acquisizioni, prese di partecipazione anche in Europa. Quello che il Circolo degli economisti francesi ha chiamato "nuovo capitalismo di stato finanziato dai surplus dei pagamenti correnti che si getta sulle imprese europee e americane" è destinato a cambiare molte cose. Per esempio la Cina, prevede Morgan Stanley, da paese importatore netto di capitali ne diventerà presto un grande esportatore. E nel Vecchio Continente potrebbero cambiare gli equilibri azionari in società che ne costituiscono l'armatura finanziaria e industriale. In una Europa sempre molto sensibile alle sirene protezionistiche e in pieno ribollire di scalate bancarie, nuove contrastate fusioni nel settore dell'energia e alla vigilia della probabile separazione generalizzata delle attività di produzione da quelle di distribuzione di elettricità e gas, c'è più di un motivo per temere una valanga. E' vero che il denaro non puzza, ma che cosa accadrebbe se, come si teme in Germania e Francia, ‘fondi sovrani' si impossessassero di quote rilevanti di società sensibili per la sicurezza militare o economica non mossi da scopo di lucro (massimo ritorno dall'investimento) bensì da obiettivi di influenza politica o per mettere le mani sul know-how tecnologico? La risposta europea è rimandata a settembre, ma i primi segnali indicano divisioni profonde e non poca confusione. Il commissario al commercio Peter Mandelson, che rappresenta l'ala liberista dell'esecutivo europeo, ha dapprima sorprendentemente parlato di una ‘golden share' comunitaria (condivisa tra Commissione e stati membri) nelle società "strategiche". Poi ha corretto, consapevole del rischio di far rientrare dalla finestra ciò che tutti i giorni Bruxelles caccia dalla porta e cioè gli sbarramenti impropri alla circolazione dei capitali: ciò che conta è il principio di reciprocità, se i cinesi investono qui anche i loro mercati e le loro società devono essere altrettanto aperti. Inoltre, no a misure "orizzontali", solo valutazioni caso per caso. Interessante il mezzo passo indietro di Mandelson: il governo Brown, infatti, ha appena benedetto l'aiuto di China Development Bank e Temasek, braccio finanziario del governo di Singapore (sono sempre gli stessi attori in gioco), a Barclays nell'opa sull'olandese Abn Amro. Oggi Bruxelles, poi, ricorda la linea della Commissione europea: nel mercato interno non c'è spazio per le "golden share". Diversamente, però, la pensano gli olandesi visto che il parlamento ha appena chiesto il ritorno ai "diritti speciali" per impedire l'ingresso di investitori non desiderati in settori strategici: servizi di utilità pubblica, trasporti, sanità, educazione. Anche in Germania il ministro delle finanze Peer Steinbrueck ha compilato una lista: energia, banche, trasporti, telecomunicazioni. Le stesse cose si pensano a Vienna. Contro la ‘golden share' si è pronunciata solo Emma Bonino e neppure a nome del governo ma a titolo personale. Si capisce il perché: se qualche fondo sovrano scalpitasse per l'Alitalia sarebbe respinto?


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