Piccolo prontuario per capire che cosa c'è dietro una marca, da Roland Barthes ai generatori telematici di nomi evocativi ed efficaci


La marca, un misto di immaginario e realtà, parole banali ed evocative. Un nome che deve fare i conti con i suoi significati nelle diverse lingue, l'esistenza di locuzioni simili, il rapporto con quello di prodotti dello stesso genere; che deve essere facile da memorizzare e pronunciare. Creare il nome di un prodotto, di un servizio, di qualcosa che dovrà conquistare i consumatori, è un processo alchemico talmente complesso che avrebbe probabilmente spaventato i cercatori della pietra filosofale. Anche perché il nome sarà uno dei fattori decisivi per la sopravvivenza di un marchio nella giungla del mercato, decretandone il successo o il fallimento. Ed è per questo che crearlo richiede lunghi e numerosi confronti fra account e creativi delle agenzie pubblicitarie e l'azienda committente, che si devono scontrare con tutte le problematiche di cui sopra.

Prendiamo il caso della diversità delle lingue: la vecchia "Jetta" della Volkswagen non evocava praticamente nulla in Germania, ma in Italia era piuttosto raro imbattersi in una vettura che significava "sventura". E la "Bora", della stessa casa automobilistica? Quando uscì sul mercato nell'area di Roma le ironie sul grado di raffinatezza dei suoi conducenti si sprecavano. Anche la Fiat vanta un caso simile, con la "Ritmo" che per i britannici significava niente meno che "ciclo mestruale".

Come un nome per un bambino, anche per una marca il nome determinerà la personalità del prodotto: questo era il fulcro della teoria della "Star Strategy" di uno dei padri della pubblicità contemporanea, Jacques Seguela, che considerava il prodotto alla stregua di un individuo dotato di corpo, carattere, stile e perfino sex appeal. Se però il nome di una persona rimane lo stesso per tutta la vita, ci sono casi di marche che si sono modificate con i tempi: è il salutismo ad aver spinto la storica catena di fast food "Kentucky Fried Chicken" a elidere dal suo marchio il "fritto" e a diventare un acronimo, KFC, molto più light anche nella lunghezza.
Oppure un'azienda può generare nel suo portfolio una marca talmente forte da esserne cannibalizzata: è successo alla giapponese "Matsushita" che di recente ha sostituito il suo nome con Panasonic, il brand con il quale era più conosciuta e diffusa.

Possono esserci anche paradossali casi di marche senza logo (come Muji, termine giapponese che significa "nessun marchio"), oppure di invenzioni di sana pianta vagamente disorientanti per il consumatore (sapevate che il nome dei gelati americani Häagen-Dazs è costruito su una mera sonorità scandinava, capace di evocare l'artigianalità europea e la freschezza di quelle latitudini?).

Ancora, c'è un'interessante strategia che fu svelata per la prima volta da Roland Barthes nel suo "Miti d'oggi", riguardante i nomi dei detergenti per la casa: il filosofo osservò che l'immaginario costruito intorno a loro evocava atmosfere militari e persino di guerra ("attacca lo sporco", "annienta i batteri", "sconfigge il calcare") da cui, per esempio, il nome di Aiax, valoroso combattente dell'Iliade, dato a una linea di prodotti per la casa, oppure quello del forzuto comandante del pulito "Mastro Lindo".

Le ultime notizie in materia, però, come sempre vengono dal web: il processo di naming, usualmente lungo e costoso, si potrà fare in rete, attarverso siti (come www.netsubstance.com) che offrono software capaci di elaborare le parole che si vogliono associare alla nuova marca, per poi analizzarle e proporre una serie di nomi. "Nomen omen", dicevano gli antichi, "il nome è il destino". Anche se nasce da un brainstorming digitale.

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