Non c'è nulla come la riforma finanziaria che fornisca un ritratto della Washington del 2010, la Washington di Barack Obama e delle solide, nei numeri, maggioranze democratiche al Congresso. Rischia moltissimo di essere una riforma solo a parole, e una conferma dello status quo nei fatti (leggi il dossier).

Già il testo votato l'11 dicembre dalla Camera, che partiva dalle proposte presentate nel giugno 2009 da Casa Bianca e Tesoro e pilotato dal presidente della Commissione servizi finanziari, Barney Frank, 69 anni, è giudicato gravemente insufficiente nei due nodi principali: la dimensione delle banche, che non possono superare certe dimensioni se la mano pubblica deve comunque come indica il testo salvarle, e le regole per il mercato dei derivati, che non possono più facilmente mettere a rischio le banche, se la mano pubblica deve salvarle. Un'impostazione che sembra prendere piede anche in Europa (leggi il dossier).

Cambiamenti solo formali
Negli Stati Uniti, comunque, dopo l'approvazione da parte della Camera tocca adesso al Senato. La Camera Alta partirà dalla bozza di testo messa a punto da Chris Dodd, e sul quale centinaia di lobbisti dell'alta finanza si sono esercitati come hanno fatto in autunno alla Camera, rischia di essere una conferma dello status quo. Con tutti i pericoli connessi. Tre le obiezioni, nell'ondata di critiche che provengono soprattutto da sinistra (i repubblicani difficilmente attaccano Wall Street, e poco lo fanno da circa 15 anni anche molti congressmen democratici). Non intacca i poteri della Fed, che pure lo stesso Dodd giudicava un anno fa "un fallimento abissale"; anzi, assegnerebbe alla sfera Fed il controllo della nuova Agenzia finanziaria per la protezione del consumatore, che non avrebbe più piena e insindacabile capacità di intervento, come volevano i suoi primi ideatori.
Mantiene in vita l'attuale sistema di rating delle varie Moody's, Fitch e simili, che hanno avuto una performance fallimentare regalando triple A a destra e manca, e sono state tra le realtà meno scalfite anche nel testo della Camera. E infine anche se a differenza del testo della Camera sembra porre fine al problema delle banche too big to fail, in realtà proietta la soluzione in un imprecisato futuro e accuratamente cassa tutte le proposte, esistenti al Senato, che affronterebbero rapidamente il problema.

La Fed vincitrice della partita
Questo equivale a un rifiuto del Volcker Rule, le regole abbracciate dallo stesso Obama il 21 gennaio, dopo la clamorosa sconfitta elettorale nel Massachusetts, e che hanno la dimensione delle banche come uno dei due nodi centrali. Come già riportato da Il Sole 24 Ore online, cinque senatori stanno cercando di inserirle in modo inequivocabile. La necessità di nuove regole finanziarie è evidente perché occorre ristabilire la fiducia nel pubblico. Ma testi come quello di Dodd, che proclamano la riforma ma non ne attuano nessuna significativa, dicono i numerosi critici, peggiorano soltanto la situazione. Solleva perplessità il fatto che il testo faccia della Fed, cui verrebbe assegnata la supervisione di tutte le banche con assets superiori ai 50 miliardi, il vero vincitore della partita. Dopo che la Fed con Greenspan e poi anche con Bernanke è stata, probabilmente, il maggiore responsabile. E questo senza nessuna riforma significativa dell'istituto di emissione, riforma che sarebbe peraltro al momento molto problematica. Il cambiamento è radicale, perché una prima versione di Dodd avrebbe spogliato la Fed di molti dei suoi – non esercitati dal 2000 in poi – poteri di controllo.
«Sul tema centrale, il too big to fail, non c'è nulla di significativo», osserva l'economista dell'Mit ed ex capo economista del Fondo, Simon Johnson, osservatore costante e critico impietoso di come Washington non riesca ad affrancarsi dai desiderata di Wall Street.

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