«Il London Stock Exchange è un gruppo quotato in Borsa: per nominare un membro del consiglio di amministrazione c'è una procedura da rispettare». Angelo Tantazzi, presidente di Borsa Italiana e vicepresidente del London Stock Exchange, non lo dice esplicitamente. Ma la sua frase, tra le righe, lo lascia intuire: con le dimissioni di Massimo Capuano, l'Italia non ha perso un membro nel Cda del gruppo London Stock Exchange. È solo questione di tempo. Di procedure da rispettare. Insomma: il posto lasciato vacante da Capuano sarà presto riempito. E sarà colmato da qualcuno di nomina italiana: «I consiglieri, prevedono gli accordi presi ai tempi dell'integrazione, devono essere cinque di nomina italiana e sette inglesi. Ora l'Italia ne ha quattro». Il professor Tantazzi ha aspettato due giorni per concedere questa intervista. Voleva riflettere sulla situazione, dopo le violente polemiche divampate nelle ultime settimane sulla fusione tra la Borsa di Londra e quella di Milano. Ma ieri ha deciso di parlare. Guardando in faccia la realtà: «Va bene, diciamo pure che non è stata una fusione ma l'acquisizione di Londra su Milano». Ma difendendo a spada tratta la scelta del 2007 di sposare Piazza Affari con la Borsa di Londra.

La sensazione di tanti è che l'Italia abbia perso un'infrastruttura come la Borsa, ormai diventata inglese. Condivide?
Ma no, non abbiamo perso niente. Il problema vero, da affrontare, non è quello dell'italianità ma quello della concorrenza. La direttiva Mifid ha aperto il mercato a molte piattaforme alternative di trading, come Chi-X. È vero che queste garantiscono costi bassi ai clienti, ma è anche vero che offrono solo servizi di trading su titoli già esistenti. Le Borse tradizionali, che permettono a imprese nuove di quotarsi, hanno invece una funzione più ampia: di finanziamento dell'economia. E Borsa Italiana esercita questa funzione: non a caso ci sono medie aziende italiane in lista per quotarsi a breve.

Eppure si dice che anche la Banca d'Italia sia preoccupata.
La Banca d'Italia guarda con attenzione soprattutto le attività di post-trading, cioè Monte Titoli e la Cassa di Compensazione e Garanzia, che sono un'altra importante infrastruttura per il Paese. Ma anche qui l'Italia non sta perdendo nulla. La vigilanza su queste attività resterà infatti sempre in capo alla Banca d'Italia.

Se il post-trading è un settore così importante, perché il gruppo non ha ancora un piano industriale per rilanciarlo?
Semplicemente perché il quadro normativo è ancora in evoluzione. È attualmente in discussione la direttiva «Target 2 Securities», che cambierà nei prossimi anni il panorama di questo settore.
Come si fa a progettare un futuro per Monte Titoli se non si conoscono le normative in cui dovrà operare?

Il fatto però che sia la stessa Borsa di Londra a non usare i servizi di Monte Titoli e di Cassa di Compensazione, pur essendone proprietaria, è un po' sospetto.
Ma no, il problema è che per utilizzare i nostri servizi in Inghilterra bisognerebbe portare Monte Titoli a Londra.

Secondo alcune indiscrezioni di stampa, tempo fa eravate interessati ad acquistare una società di clearing europea. È vero?
Siamo sempre attenti a valutare operazioni interessanti, ma per il clearing bisogna anche considerare le Autorità di altri Paesi, visto che ci sono diverse normative sulla gestione dei rischi.

Non è che a Londra le lobby bancarie, notoriamente affezionate all'opacità dei mercati, frenano sullo sviluppo del post-trading?
No. E la nostra attenzione anche a valutare eventuali acquisizioni in questo settore dimostra la determinazione ad andare avanti.

Come vede il tentativo di compattare le quote, pari al 18%, delle banche italiane azioniste dell'Lse?
Potrebbe essere una cosa positiva, per contare di più. Ma tutto dipende da come viene fatta un'operazione di questo tipo: non basta mettere le quote in un serbatoio comune, ma servono regole di governance precise.

Ma allora perché qualche anno fa Capuano e l'ex a.d. Clara Furse bloccarono le Fondazioni italiane che volevano acquistare le quote dell'Lse messe in vendita dal Nasdaq?
Non è andata proprio così. Il Nasdaq voleva vendere, ma fece un accordo con la Borsa di Dubai che comprò le sue quote cedendo in cambio al Nasdaq le azioni della scandinava Omx. Nessuno se l'aspettava: siamo stati tutti beffati da Dubai. È per questo che l'operazione delle Fondazioni si è boccata.

Non è che l'operazione non piaceva perché rompeva gli equilibri interni all'Lse?
È vero che i gruppi internazionali come il London Stock Exchange preferiscono avere un azionariato equilibrato, in cui nessun socio risulta dominante. Ma non è questo il punto. Il problema è che Dubai ci ha fatto la sorpresa.

Non era meglio allearsi con la parigina Euronext, che ha una struttura federativa?
Ci avevamo provato, ma dopo mesi di trattative Euronext ci ha sorpreso alleandosi con Wall Street. Così la trattativa si è interrotta. Abbiamo anche lavorato mesi per creare una Borsa unica dell'aurea euro, ma in questo caso è stata Deutsche Börse a dirci di no.

Quindi vi siete alleati con Londra come ultima spiaggia, in un'ottica difensiva?
No, la logica era industriale. Pensi che il 40% degli scambi su azioni italiane veniva da Londra: l'alleanza con loro era una cosa inevitabile. E Londra, in quegli anni, si stava affermando come principale piazza finanziaria del mondo.

E da allora i flussi londinesi sulle azioni italiane sono aumentati?
Il problema è che, a causa della crisi finanziaria, i volumi sono calati su tutte le Borse.

Almeno i costi per gli investitori sono diminuiti?

Sono rimasti stabili: ma già prima Borsa Italiana offriva i costi più bassi d'Europa. E quando diventerà operativa la nuova piattaforma tecnologica Millennium, le condizioni potrebbero migliorare ancora. Questo è il maggiore valore aggiunto portato dalla fusione: sul piano tecnologico abbiamo fatto un grande passo avanti.

Un'ultima curiosità: è vero che anche lei è in uscita dal gruppo?
È scritto nel «rapporto annuale» che a settembre scadono i tre anni del mio mandato a Londra. L'ha letto «Il maestro e margherita»? Lì c'è una frase interessante. Dice: «Siamo tutti mortali, il problema è il timing»...

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