Al ritorno dai miei viaggi mi accade di annotare su un piccolo diario gli incontri più interessanti che ho avuto. A volte riporto anche un'impressione, un'atmosfera, lo stralcio di una conversazione che mi ha arricchito. La scorsa estate, rientrato a Milano dopo le elezioni presidenziali dell'Afghanistan, mi sono accorto che Marco Garatti era una di quelle persone speciali che, non molto spesso, si ha la fortuna di incontrare. Fui così colpito dalla sua personalità che, chiacchierando a Milano con alcuni amici, mi sono sorpreso a parlare di lui: «Ci vorrebbero più persone come lui, pronte a sacrificare la propria vita per aiutare gli altri», dicevo.

L'ho incontrato una sera nel compound di Emergency, giusto di fronte all'ospedale della Ong di Gino Strada a Kabul, nel quartiere di Shar-e– Nau. Vicino al ministero per le donne. Una tavola accogliente – anche se si arriva molto in ritardo - un clima ospitale e sereno, una cucina eccellente. Mi soffermo sulla cucina perché è il passatempo preferito di Marco. A lui piace portare a Kabul cibi ricercati dall'Italia e poi cucinarli per gli amici . Con la sua immancabile camicia bianca afghana – sembra che ne abbia 14 uguali – serve il piatto del giorno mentre lo descrive con il suo simpatico accento bresciano. Mi sono chiesto chi glielo fa fare. Spignattare in cucina per gli altri nei pochi momenti di tempo libero. Pochi momenti, perché lavora in sala operatoria anche 14 ore al giorno.

Chi lo conosce racconta che sia un ottimo chirurgo, specializzato in casi impossibili. D'altronde nell'ospedale di Emergency arrivano casi disperati. Quando c'è un attacco kamikaze le ore di lavoro non si contano. Eppure, per quanto affaticato e segnato in volto, Marco è sempre sereno e disponibile. Una mia cara amica che vive da anni a Kabul sostiene sia il migliore dispensatore di consigli di Kabul. Ed è anche un ottimo conoscitore della vita e della cultura afghana, sempre pronto, se lo si chiede, a raccontare un divertente aneddoto.

Durante un'altra cena, ci ritrovammo all'angolo della tavola: Marco, la sua inseparabile fidanzata Susana, una giovane donna finlandese che lavora in ospedale con lui ed io. Gli chiesi: «Ma se ti arrivasse un giornalista italiano, ferito gravemente, oppure un famoso politico o un diplomatico non saresti più nervoso ad operarlo? Non ti sentiresti gravato da una maggiore responsabilità?» «Quando apro una pancia mi dimentico di tutto il resto. Una vita da salvare è una vita da salvare, non fa differenza». Marco ha operato tantissimi civili, tra cui molti bambini, ma sotto i suoi ferri sono stati salvati anche soldati dell'esercito afghano. Quella sera la conversazione è finita presto. La radio che si porta sempre dietro ha cominciato a gracchiare. Donna ferita da arma da fuoco alla gamba, perde molto sangue. Marco si è allontanato dal tavolo, quasi senza farsi notare.

Marco Garatti a prima vista sembra timido. Quando si parla dell'Afghanistan il suo volto però si accende. Ama il paese, la sua gente, le sue contraddizioni. A volte si infervora, altre volte si dispera. Ma vuole sempre fare ciò che è in suo potere per migliorarlo. Preferisce i fatti alle parole. Uno dei suoi ultimi progetti era creare un sistema di coordinamento tra gli ospedali afghani di Kabul. Fare in modo che ognuno si specializzi in un settore, in modo che ad ogni incidente si sappia subito dove inviare la persona ferita senza perdere prezioso tempo. La disorganizzazione e la rivalità tra i diversi ospedali non l'hanno certo aiutato. Ma lui non è persona che si scoraggia.

Non so cosa sia successo nell'ospedale di Laskhar Ga. Può essere accaduto di tutto. L'Afghanistan è una realtà molto complessa. Non mi sento di escludere nulla. Anche che un infermiere, la cui famiglia è stata minacciata dai talebani, abbia introdotto armi all'insaputa dello staff medico occidentale. Oppure altro. Ripeto, non so cosa sia accaduto, né ho in mano elementi per suggerire una pista. So solo che l'ultima persona di cui io sospetterei è Marco.

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