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Lezioni dalla storia. Giovanni Giolitti, «Fidatevi, vi servono unità e la Costituzione che avete»

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Questo articolo è stato pubblicato il 24 agosto 2010 alle ore 08:03.

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Ammetto di aver voluto fare lo spiritoso quando fissai l'appuntamento davanti al Caffè Giolitti. Mi rispose che si ricordava il giorno dell'inaugurazione, nel 1900, e aveva proprio voglia di riassaporare un bicchierino di rosolio. Quando arrivai, era già seduto al tavolino con davanti un'enorme coppa di gelato, i baffoni a manubrio irrimediabilmente incremati. Osservava incuriosito il via vai di gente che oltre la vetrina sciamava nella calura estiva, le canottiere sudate, i bermuda colorati, ai piedi delle strane pantofole che lasciavano scoperte protuberanze bitorzolute.

Lui era, come sempre, elegantissimo con il suo completo grigio, il farfallino nero, i guanti bianchi, il cappello e il bastone poggiati sulla sedia accanto. Sembrava uscito da una fotografia di inizio Novecento e stringeva gli occhi chiari e guizzanti come per mettere meglio a fuoco la scena che aveva davanti: solo i vicoli tra Palazzo Chigi e il Caffè erano rimasti uguali, tutto il resto era cambiato nel giro di appena tre generazioni, da quando, la notte del 17 luglio 1928, era morto nel borgo subalpino di Cavour alla veneranda età di 86 anni. Cavour, un nome, un destino dal momento che a Roma, nei lunghi anni del potere ufficiale, aveva abitato nell'omonima via.

«Perché mi avete chiamato, cosa volete sapere da un vecchio arnese come me?». Gli spiegai che mi sarebbe piaciuto sentirlo parlare della "svolta Giolitti" del 1903 e conoscere che cosa avrebbe fatto lui al nostro posto, dentro la crisi italiana di oggidì. Sorrise. «D'accordo, a patto però di farla finita con l'equivoco del "giolittismo". Sono stanco di essere trasformato in un sostantivo e di venire rievocato impropriamente come uno stile di governo. Non mi sento responsabile di quanto altri hanno voluto fare di me. In questi decenni li ho osservati con distacco dal mio rifugio tombale di Cavour, le spalle appoggiate al muro di cinta del cimitero comunale: il disprezzo di Mussolini, l'elogio di Togliatti nel 1950, il centro-sinistra di Fanfani e di Moro negli anni Sessanta, i governi di solidarietà nazionale di Andreotti tra il 1976 e il 1979, Prodi negli anni Novanta con il suo Ulivo...».

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«L'idea che il mio obiettivo fosse quello di parlamentarizzare il conflitto e d'istituzionalizzare gli estremi, e che il riformismo italiano, usando il mio nome come un'etichetta buona per tutte le stagioni, abbia trovato di volta in volta la sua unica forma d'espressione possibile tra clientele e trasformismi, mi sembra estremamente riduttiva. Allora, mettiamo le cose in chiaro: io sono stato un uomo di governo, con una testa politica, lucida, razionale, antidottrinaria, che amava l'Italia. Il mio paese, lo percepii nitidamente, alla fine dell'Ottocento si trovava a un tornante decisivo della sua storia. Nel maggio 1898, il governo guidato dal marchese Antonio di Rudinì aveva proclamato a Milano lo stato d'assedio e il generale Bava Baccaris decise di sparare sulla folla, uccidendo 80 poveri cristi che chiedevano pane e lavoro. Quella risposta armata non era tollerabile; non solo per ragioni umanitarie, ma politiche, giacché, nella sua ferocia, era la spia che l'involucro istituzionale da noi costruito fino a quel momento non era più sufficiente a contenere le ragioni e la forza di quella nuova spinta verso la giustizia».

«Come scrissi nelle Memorie della mia vita - mi perdonerete la citazione - "io consideravo insomma che, dopo il fallimento della politica reazionaria, noi ci trovavamo all'inizio di un nuovo periodo storico, e che ognuno che non fosse cieco doveva ormai vederlo. Nuove correnti popolari entravano ormai nella nostra vita politica, nuovi problemi si affacciavano ogni giorno, nuove forze sorgevano con le quali il governo doveva fare i conti; il dovere degli amici delle istituzioni era di persuadere quelle classi, e persuaderle non con le chiacchiere, ma con i fatti, che dalle istituzioni attuali esse potevano sperare assai più che dai sogni avvenire, e che ogni loro legittimo interesse avrebbe trovato tutela efficace negli attuali ordinamenti politici e sociali"».

Lo interruppi - avevo letto quel testo allo scopo di prepararmi all'incontro - per dirgli che quel bastione reazionario era sembrato a molti una soluzione e aveva una sua forza autonoma, non solo a causa del seducente volto repressivo, ma perché era accompagnato da una proposta di modernizzazione per il paese, che garantiva interessi concreti e potenti.

«E già - riprese lui tutto d'un fiato - l'animo era sospeso fra il timore di un tramonto e la speranza di un'alba nuova, ma compresi che dovevo servirmi di ciò che c'era per avere la meglio di quel fronte che però andava sfidato con una proposta di modernizzazione alternativa. Non un "ritorno allo Statuto", non l'incoraggiamento dei fermenti separatisti che già allora avrebbero voluto il Nord d'Italia ("l'Italia civile") diviso dal meridione ("l'Italia barbara"), bensì un investimento coraggioso sulla democrazia parlamentare (introdussi il suffragio universale maschile) e sul mondo del lavoro, favorendo i sindacati, imponendo le otto ore e rifiutando di usare la forza armata contro chi scioperava. Per riuscirvi mi servii dei cattolici, adoperandomi per la fine del "non expedit", in base al principio - mi scuserete di nuovo - "che lo Stato e la Chiesa sono due parallele che non si debbono incontrare mai perché lo Stato rappresenta tutta la nazione, che è al di sopra di tutte le religioni, di tutte le sette, di tutti i partiti politici"».

«Scelsi il partito socialista come interlocutore, lo sdoganai - direste voi oggi - quantunque fosse repubblicano e sovversivo. Nessuno lo avrebbe creduto possibile nelle ore in cui l'anarchico Bresci, il 29 luglio 1900, uccideva Umberto I per vendicare i morti di Milano, ai tempi del governo di pacificazione nazionale di Saracco. Un esecutivo di mediazione del tutto inutile dal punto di vista della strategia politica di fondo, ma che mi fu utilissimo per prendere tempo sul piano tattico e organizzare le forze per isolare gli estremisti e sconfiggere i reazionari. Bisognava inserire le masse popolari nella vita della nazione perché "la organizzazione degli operai camminava di pari passo col progresso generale della civiltà" e conciliare gli interessi della nuova borghesia imprenditoriale del Nord con quello dei lavoratori urbani. Per farcela, dovetti battere il progetto velleitario del buon vecchio Zanardelli, quell'idea di dare vita a un grande partito progressista ove fare confluire liberali, repubblicani e socialisti, che aveva ridotto il Parlamento a un ammasso di clientele, fazioni, gruppi litigiosi, che rendevano impossibile una maggioranza stabile e sicura, di dritto o di rovescio che fosse».

Sembrava un torrente in piena, del resto aveva seguito tutta la storia d'Italia di questi 82 anni in silenzio, e ora non voleva più smettere di parlare. «Sì, d'accordo, ho capito - lo interruppi io - ma cosa farebbe oggi?». Sebbene visibilmente annoiato dalla domanda, in quanto ogni età ha i suoi problemi e le sue sfide, rispose paziente: «Bisognerebbe cercare una sintesi creativa, la più larga possibile, intorno ad alcune parole d'ordine semplici e chiare: unità nazionale, difesa della Costituzione, promozione della legalità e del merito, riforma del mercato del lavoro, equità fiscale. Certo, più facile a dirsi che a farsi, ma a me sembra una strada obbligata. Non è "giolittismo" questo, ma buon senso, realismo politico. Guardate - aggiunse - ho portato con me un articolo del 1899 del socialista Claudio Treves, quando ancora tutto doveva incominciare...».

Lo iniziò a leggere a voce alta: «"C'è dall'altra riva un uomo che ci ha capito. L'uomo può essere simpatico o antipatico, inspirare fiducia o diffidenza, può essere un furbo o un ingenuo; il movimento di ricomposizione dei partiti può averlo favorevole o contrario, alla testa o alla coda; tutte queste sono singolarità accidentali; l'importante è che l'uomo abbia capito". Capite? Stava parlando di me senza nominarmi e solamente così, grazie a quella grande forza popolare, riuscii a prendere il largo col mio progetto, cercando di mettere il giusto vestito a questo paese ingobbito così difficile da governare. Anche oggi - solo se avrete il coraggio di non chiedervi da dove venite, ma dove volete andare - potrete riuscire a dare vita a un esecutivo "lungo e fattivo" quale fu il mio, altrimenti resterete nel pantano, nella grande palude di questi tempi, logorati tra faide e personalismi senza futuro. State attenti, però, a non sottovalutare l'avversario».

All'improvviso un silenzio di tomba mi risollevò dal torpore e mi resi conto di non avere nessuno davanti a me, se non una torma di studentesse sciamannate con le unghie laccate di tanti fantasmini colorati. Fu allora che compresi di aver sognato. Eppure, mentre mi allontanavo dal Caffè, feci in tempo ad accorgermi che sulla sedia qualcuno aveva dimenticato un cappello dalla foggia strana. Era tutto impolverato.

Il profilo
LA VITA

Giovanni Giolitti nasce a Mondovì nel 1842. Rimasto orfano di padre a un anno d'età, viene portato dalla madre a Torino nella casa materna. "Gioanin", come viene chiamato, si laurea a 19 anni in giurisprudenza all'università torinese. È iniziato alla politica da uno dei suoi zii, che era stato deputato nel 1848. Tramite lo stesso zio conosce Cavour, ma non risponde alla chiamata di Vittorio Emanuele II per combattere nella seconda guerra d'indipendenza.

L'INGRESSO IN POLITICA
Nel 1862 lavora al ministero di Grazia e giustizia, nel 1869 a quello delle Finanze. Nel 1877 viene nominato alla Corte dei conti e nel 1882 al Consiglio di stato. Nel 1882 si candida a deputato ed è eletto. Nel 1889 diventa ministro del Tesoro, ma l'anno successivo si dimette dall'incarico anche perché in disaccordo con la politica coloniale del governo Crispi. Nel 1892, caduto il primo governo Di Rudinì, riceve da re Umberto I l'incarico di formare il suo primo gabinetto.

I CINQUE GOVERNI
Il primo governo Giolitti cade dopo poco più di un anno, sia per lo scandalo della Banca Romana, sia per il suo rifiuto di reprimere con la forza le proteste che attraversano il paese. Ritorna al governo nel 1903 con strategie che parevano rivoluzionarie: tolleranza verso gli scioperi, nuove norme a tutela di lavoro, vecchiaia e infortuni. Il suo terzo governo - che inizia nel maggio 1906 - è all'insegna della politica economica intrapresa in passato. Nel 1909 Giolitti lascia che sia nominato primo ministro il conservatore Sonnino, che si dimette dopo soli tre mesi: lo sostituisce il giolittiano Luzzati. Il quarto governo Giolitti dura dal 30 marzo 1911 al 21 marzo 1914. A Giolitti succede Salandra, sotto il quale il paese è coinvolto nella Prima guerra mondiale. L'ultimo governo, il quinto, inizia nel giugno 1920. L'Italia si trova ad affrontare il difficile periodo post-bellico. Questo governo dura solo un anno. Giolitti vota a favore del primo governo Mussolini nel 1922.

miguel.gotor@unito.it

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