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L'attualità di Cicerone, il difensore della «res publica»

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Questo articolo è stato pubblicato il 27 agosto 2010 alle ore 08:05.

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«La nostra epoca, pur avendo ricevuto uno stato simile a un quadro dipinto con arte suprema, ma ormai sbiadito per effetto del tempo, non solo ha trascurato di riportarlo ai suoi primitivi colori, ma non si è neppure preoccupata di conservarne almeno la forma e, per così dire, le linee di contorno. Cosa rimane infatti degli antichi costumi, su cui, come disse il poeta Ennio, si reggeva lo stato romano? Questi vediamo così sepolti nell'oblio, che non solo non vengono osservati, ma ormai ignorati... Per le nostre colpe, non per un caso, noi conserviamo lo stato solo di nome, nella sostanza invece lo abbiamo perso già da tempo».

Parole intrise di angoscia scritte non oggi, ma mezzo secolo prima di Cristo, quando Cicerone certifica con La Repubblica il dissesto terminale delle istituzioni di Roma e compie un estremo tentativo di elaborazione teorica per riscattarle. Figlio tormentato di un secolo anch'esso breve, Cicerone è insieme avversario, complice e vittima di una crisi epocale che, stravolgendo in pochi decenni la potenza dominatrice di gran parte del mondo, segna in modo indelebile il futuro corso della storia occidentale.

La crisi dei partiti tradizionali, la corruzione dilagante, l'irrompere sulla scena di personaggi troppo forti perché le forme costituzionali possano davvero contenerli, l'accentuarsi delle differenze tra abbienti e spossessati, la tentazione di soluzioni autoritarie, la "morte dello stato": non occorre calcare la mano su analogie che pure esistono e seducono, basta estrarre da una prodigiosa riflessione teorica affiancata a una significativa attività sul campo una lezione di scienza politica resa non meno istruttiva dalle sconfitte che al suo autore toccò di subire.

Rileggere oggi Cicerone consente infatti di osservare una delle menti più acute del mondo antico alle prese con la metamorfosi, se non il disfacimento, dell'antica repubblica e aiuta a collocare la crisi (meglio, le crisi) dell'oggi in una prospettiva storica e teorica.
Nonostante le turbolenze e i conflitti di inizio secolo, quando Cicerone dà inizio alla sua carriera non si intuiscono ancora la portata e l'esito della crisi. Anzi, proprio la sua ascesa sembra dimostrare che funzionano ancora i meccanismi di selezione e ricambio della classe dirigente che avevano consentito alle strutture dello stato di adattarsi alle mutate condizioni di Roma, non più piccola potenza locale ma ormai caput mundi.

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Cicerone proviene da una famiglia agiata ma provinciale, del ceto equestre ma non nobile, eppure guadagna l'ingresso in Senato, scala le tappe del tradizionale cursus honorum, approda alla magistratura più alta, il consolato, quando ha compiuto da poco i quarant'anni. Cicerone più volte sottolinea l'importanza dei meccanismi di cooptazione della classe dirigente: è necessario ampliare la base di quanti si sentono rappresentati dalle istituzioni repubblicane e identificano il benessere del proprio ceto o della propria regione con quello dello stato, ma, soprattutto, va sempre assicurata la qualità intrinseca, la caratura etica e morale di quello che oggi si chiama il "personale politico". Per Cicerone è questo l'argine fondamentale a difesa della patria in pericolo.

La realtà politica è però ormai un'altra, anche se Cicerone esita a prenderne atto. Troppo forti sono le spinte centrifughe che sui checks and balances della vecchia costituzione esercitano alcuni leader di peso eccezionale, nemici tra loro nella lotta per la supremazia, alleati all'occorrenza nel comune intento di disegnare un diverso assetto per l'impero. La forza militare di Pompeo, l'enorme potere finanziario di Crasso, Cesare, distillato micidiale di vizi e virtù, non possono affollarsi insieme alla ribalta senza imporre uno stravolgimento radicale delle regole. La crisi delle forme politiche cui Cicerone assiste e partecipa è la crisi di un assetto costituzionale e di un quadro economico e sociale che non si lasciano più leggere con le categorie care alla gran parte della classe dirigente romana, ma è anche l'esito di uno scontro tra personalità eccezionali cui la Storia ha dato appuntamento nello stesso luogo e alla stessa ora.

Cicerone insegna, anche con i suoi errori, che tempi nuovi ed eccezionali esigono di rivedere i paradigmi dell'analisi politica. Lo scontro per il dominio che tormenta Roma una volta archiviata ogni seria minaccia militare esterna obbedisce a nuovi schemi e sforzarsi di ricondurli a quelli usuali rischia di non farne cogliere né le caratteristiche, né la portata.
In prima battuta sfugge a Cicerone che la vecchia contrapposizione tra ottimati (noi diremmo "conservatori") e "popolari", sulla quale si era fondata per secoli la dialettica politica di una città concentrata soprattutto nell'espansione del suo dominio, perde forza ora che i problemi appaiono sempre più determinati da conflitti interni tra gruppi di potere che si uniscono e si disciolgono secondo la convenienza del momento e le esigenze dei loro capi.

Cesare, campione dei "popolari", appartiene a una delle famiglie più blasonate della città, che assegna a Venere ed Enea il ruolo di capostipiti. La congiura che proprio nell'anno del consolato di Cicerone scuote alle fondamenta lo stato facendo appello soprattutto al malcontento degli oppressi è promossa da Lucio Sergio Catilina, altro nome, quello dei Sergi, le cui origini affondano nei miti della prima Roma.
Anche l'alternarsi di alleanze e conflitti tra i tre grandi, Cesare, Crasso e Pompeo, obbedisce a una sua mutevole logica interna che poco ha da spartire con il nitido impianto del "bipartitismo" classico. La lezione - retrospettivamente - è chiara: cessato il timore di un nemico esterno, raggiunto un grado di benessere elevato, le società avanzate implodono per corrosione interna, dilaniate dai conflitti tra bande, dimentiche che gli interessi della res publica devono prevalere.

La "crisi" di Cicerone consiste proprio nel cercare di arginare e indirizzare una realtà che sta sbriciolando sotto i suoi occhi tutti i punti di riferimento teorici e politici. A questa crisi Cicerone reagisce proponendo via via alleanze e formule di alterna fortuna che a poco servirono allora e ancor meno servirebbero oggi. Ma oltre agli insegnamenti che possiamo trarre dalle intuizioni e anche dagli errori di Cicerone alle prese con il disastro della res publica, almeno una lezione resta nitida ed esplicita, sufficiente a garantire a Cicerone un posto tra chi ha ancora qualcosa da insegnare: l'obbligo che chi intende occuparsi della vita pubblica obbedisca prima di tutto a un fortissimo imperativo etico e non si faccia in alcun modo influenzare da interessi privati.

Ai buoni leader, quelli che hanno «salvato, aiutato e accresciuto la patria» facendo uscire indenne la nave dalle tempeste della crisi, è riservata beatitudine eterna tra le anime illustri della Via Lattea, perché solo l'onestà e la rettitudine dei suoi reggitori - quale che sia il modello di governo prescelto - garantiscono la saldezza dello stato, mentre i loro vizi lo corrompono. Cicerone morì per mano dei suoi avversari: questa sua lezione gli sopravvive.

LA VITA
Marco Tullio Cicerone nasce il 3 gennaio 106 a.C. in una località del municipio di Arpino (oggi si trova nel territorio di Sora), a circa 100 chilometri da Roma. La sua famiglia appartiene alla piccola nobiltà della classe equestre. Il suo cognome, Cicero, deriva dal soprannome di un antenato, dovuto a un'escrescenza carnosa sul naso a forma di cece (cicer). Fin da ragazzo Cicerone dimostra di essere dotato di una brillante intelligenza. E, condotto a Roma dal padre, ben presto entra a far parte del circolo dei migliori oratori sotto la protezione di Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio. Approfondisce anche lo studio della giurisprudenza sotto la guida di Quinto Mucio Scevola, non trascura la poesia e resta particolarmente attratto dalla filosofia. Ha due mogli e due figli, Tullia e Marco. Negli anni della guerra civile, Cicerone cerca di difendere strenuamente la repubblica contro quello che diventerà un principatus augusteo. Muore a Formia, ucciso dai sicari inviati da Antonio, il 7 dicembre 43 a.C.

LA CARRIERA POLITICA
Per iniziarsi alla carriera politica (il cursus honorum), il giovane Cicerone, anche se di animo pacifista, tra il 90 e l'88 a.C. partecipa alla guerra sociale sotto Gneo Pompeo Strabone e Lucio Cornelio. Il suo ingresso effettivo avviene attorno all'80 con l'orazione Pro Roscio Amerino, che gli inimica Silla. Per sfuggire a eventuali vendette, Cicerone si reca tra il 79 e il 77 in Grecia, ad Atene e Rodi. Tornato a Roma, dopo la morte di Silla, nel 76 si presenta come candidato alla questura. Eletto, viene mandato in Sicilia (a lui si deve la scoperta a Siracusa della tomba di Archimede). Il successo della sua attività oratoria dà il via alla sua scalata politica: nel 69 è edile curule, nel 66 pretore, nel 64 presenta la candidatura al consolato. Ottiene i voto di tutte le centurie. Durante il consolato, Cicerone sventa la congiura di Catilina, conquistandosi l'appellativo di pater patriae.

DURANTE I DUE TRIUMVIRATI
Con l'avvento del primo triumvirato (Pompeo, Cesare e Crasso) Cicerone si allontana dalla politica, ma inviso a Cesare viene costretto all'esilio. Nel 57 a.C., Cicerone può tornare a Roma. Dopo essere stato nominato augure nel 53 al posto di Crasso, nel 51 si reca in Cilicia come proconsole. Tornato in patria, quando Cesare varca il Rubicone, Cicerone lascia Roma per unirsi a Pompeo, ma dopo la vittoria di Cesare a Farsalo torna a Roma dove nel 47 ottiene il perdono di Cesare. Dopo l'uccisione di Cesare nel 44, si schiera con il giovane Ottaviano contro Antonio (nelle Filippiche le accuse di Cicerone). Ma con l'avvio del secondo triumvirato (Antonio, Lepido e Ottaviano), Antonio ne decreta la condanna a morte. A Formia, nel 43 a.C., Cicerone viene raggiunto dai sicari.

BREVE BIBLIOGRAFIA
Vastissima la produzione letteraria di Cicerone: dalle orazioni politiche agli scritti di filosofia. Tra le opere più famose, La Repubblica si può leggere nell'edizione Bur curata da Francesca Nenci. Nella stessa serie le Lettere ai familiari a cura di Alberto Cavarzere. A Emanuele Narducci si deve una sintesi importante: Cicerone. La parola e la politica (Laterza 2009). Le Epistole ad Attico, a cura di Carlo Di Spigno, sono pubblicate da Utet.

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LE PUNTATE PRECEDENTI

La parabola di Walter Reuther, il sindacalista con vista sul futuro (di Giuseppe Berta)

Helmut Kohl, un uomo per due sogni: Europa e Germania unite (di Gianni Toniolo)

Giovanni Giolitti, «Fidatevi, vi servono unità e la Costituzione che avete» (di Miguel Gotor)

Aladino, sul tappeto volante per trovare la speranza (di Khaled Fouad Allam)

Richard Cobden, l'uomo che lottò per abolire il protezionismo inglese (di Alberto Mingardi)

Theodore Roosevelt, lo statista al servizio dei consumatori (di Luigi Zingales)

L'imperatore Nerva, che preferì il merito alla famiglia (di Alessandro de Nicola)

San Francesco d'Assisi. Attenti, il poverello ci parla ancora (di Bruno Forte)

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Johanan Ben Zakkai, il rabbino che fu capace di salvare la sua religione (di Anna Foa)

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