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La vittoria di Pisapia e la sinistra che a Milano non sa ancora guardare al futuro

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Questo articolo è stato pubblicato il 16 novembre 2010 alle ore 08:30.

È troppo facile leggere il risultato delle primarie di Milano come il segno di una crisi terminale del Partito democratico così come lo abbiamo conosciuto nell'ultimo biennio. È facile ma inevitabile. Perché la vittoria di Giuliano Pisapia tra i militanti del centro-sinistra milanese segnala l'inconsistenza della strategia dei piccoli passi che avrebbe dovuto portare il segretario Bersani a ereditare - pacificamente - le spoglie di Berlusconi, consolidando, pian piano, quello che s'immaginava come un "proprio" territorio esclusivo, e alleandosi con un centro-centro considerato immobile. Nel frattempo quel territorio è diventato oggetto di un saccheggio sempre più esteso da parte del governatore Nichi Vendola, che lavora a fornire al massimalismo italiano, orfano ormai di leadership, una nuova grammatica, ma contenuti già noti e non attuali. Tanto è però bastato a riaprire la competizione a sinistra, con un Pd messo nell'angolo a Milano come in Puglia. E Vendola può limitarsi a benedire candidati anche molto lontani da sé, come nel caso di Pisapia.

Pisapia è un professionista, avvocato garantista, pacifico nei modi ed educato in famiglia alla tradizione civile del radicalismo meneghino. Curriculum nobile ma che rischia di rivelarsi innocuo nei confronti del sindaco Moratti: che non avrà molto da temere da chi promette la "filiera corta" nei mercati alimentari, accanto al "Museo del rock", coreografici strumenti di "finanza civica" uniti al "No" a ogni privatizzazione.

Eppure, muovendo da temi e slogan tanto lontani dalle preoccupazioni della maggioranza moderata dei milanesi, Pisapia potrebbe tentare l'impresa di mobilitare gli scontenti del centro-destra oltre ai delusi dal Pd, equivalente milanese di quell'area sempre più numerosa di italiani che si avviano a scegliere di non votare.

La fisionomia dei nuovi "astenuti consapevoli" è quella raccontata più volte sulle pagine del Sole 24 Ore da Roberto D'Alimonte: cittadini tutt'altro che qualunquisti, attenti ai temi della discussione pubblica e orientati alla partecipazione civile. Ma proprio per questo delusi da quello che il convento ha passato negli ultimi anni e intenzionati a farsi valere ricorrendo allo strumento del non voto, in numero tale da farne ormai il principale partito italiano.

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(Lapresse)

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È realistico immaginare che, nel caso milanese, quest'area possa essere convinta a tornare alle urne dall'ex Rifondazione Pisapia? In teoria perché no, se si guarda al suo profilo civile e alla sua lontananza quasi antropologica dalle file degli "impresentabili" di Sinistra e Libertá che tornano a fare capolino dietro l'affabulazione di Vendola.

In realtà la candidatura di Pisapia, con i contenuti che ad oggi l'hanno caratterizzata, può ambire a riportare al voto esclusivamente gli astenuti di sinistra. Coloro che attendevano qualcuno che sapesse almeno leggere e scrivere, rispetto all'insipienza di una leadership massimalista che nel 2008 è riuscita nell'impresa di essere espulsa dal Parlamento.

Ma non sarà Pisapia, così come non sarà Vendola, a dare una risposta convincente ai nuovi "astenuti consapevoli" che arrivano al non voto proveniendo sia dal centro-sinistra che dal centro-destra. Perché il vendolismo, anche nella sua accezione milanese, rimane parte di un gioco a somma zero che si svolge interamente all'interno del centro-sinistra e che solo la disponibilità del Pd a farsi oggetto passivo delle scorribande altrui rende per la prima volta competitivo.

Fuori da quell'area, dove il solito 30-35% dell'elettorato viene conteso da Pd, Di Pietro e Vendola, il partito del non voto rimane senza padrini. Mentre il fragile bipolarismo italiano si avvia a una nuova e incomprensibile contesa elettorale, dalla quale è ragionevole attendersi un'ulteriore crescita di renitenti alla leva delle urne e un'altra ferita alla nostra democrazia.

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