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Se l'euro si strozza a Dublino. Solo radicali riforme politiche possono preservare la moneta unica

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Questo articolo è stato pubblicato il 01 dicembre 2010 alle ore 08:15.
L'ultima modifica è del 01 dicembre 2010 alle ore 07:51.

Le fratture all'interno dell'unione monetaria sono ormai visibili. La promessa era che l'euro avrebbe liberato i suoi membri dalle crisi valutarie. Ma come io e altri avevamo ammonito, è meglio stare attenti a quello che si desidera: le crisi valutarie saranno sostituite dalle crisi di debito, e le seconde probabilmente saranno più temibili delle prime.

Perché un'unione monetaria dovrebbe portare a crisi di debito? Una risposta è che le divergenze nei costi relativi portano a squilibri commerciali strutturali, con grandi disavanzi con l'estero quando le economie meno competitive si avvicinano al livello di produzione potenziale. Il settore privato o il settore pubblico devono spendere più di quello che guadagnano per conservare una situazione di piena occupazione. Questa spesa in eccedenza a sua volta dev'essere finanziata dall'estero, e questo credito alla fine verrà meno.

Una risposta più di fondo è che il tasso d'interesse comune in alcuni dei paesi dell'unione monetaria apparirà molto basso. Nella zona euro questo fenomeno è stato ingigantito dal fatto che i tassi d'interesse a livello globale erano bassi, mentre la domanda nelle economie chiave del continente era debole. Questi tassi d'interesse bassissimi hanno innescato bolle speculative e boom del credito nelle economie dei paesi periferici, e tutto questo a sua volta ha incoraggiato un boom dell'edilizia. In queste circostanze, quello che il compianto John Kenneth Galbraith chiamava il bezzle (lo stock di reati finanziari) cresce, fino a venire alla luce quando tutto crolla. Quando il sistema finanziario implode, l'economia collassa e le finanze pubbliche, apparentemente forti durante il boom, virano drasticamente al peggio.

Il risultato è una maxicrisi di debito. Con un tasso di cambio fluttuante, la pressione verrebbe parzialmente assorbita da un apprezzamento della moneta nella fase di boom e da un deprezzamento nella fase di crack. Con un tasso di cambio stabilizzato, normalmente il tracollo della moneta basterebbe a ripristinare la competitività e la crescita, come successe nei paesi asiatici più pesantemente colpiti dalla crisi degli anni 90. In un'unione monetaria, queste valvole di sicurezza vengono meno, e abbiamo una crisi congiunta del credito e della competitività. La soluzione per la perdita di competitività è un drastico calo dei prezzi; ma questo calo dei prezzi rende ancora più grave la crisi di debito: è la deflazione da indebitamento, che gli irlandesi conoscono bene.

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Questo è uno degli aspetti che fanno sì che una crisi valutaria sia meno grave di una crisi di debito. Ma l'insolvenza di un paese scuote anche la fiducia nello stato, che è la base dell'ordine giuridico e politico. Una crisi bancaria è quasi altrettanto nociva. Una crisi valutaria, in sé e per sé, no. Questo è il contesto in cui va vista la crisi dell'Eurozona. Ai vecchi tempi, quando c'era lo Sme, ci sarebbero state crisi valutarie nei paesi della periferia, e le valute greca, irlandese, portoghese, spagnola, italiana e forse di qualche altro paese sarebbero crollate rispetto al vecchio Deutsche Mark. È quello che è già successo ora alla sterlina inglese. Se l'Irlanda fosse stata ancora nell'area della sterlina, il punt (la vecchia sterlina irlandese) avrebbe accompagnato la valuta inglese nella sua caduta.

Ora, invece, la zona euro deve fare i conti con le sue crisi di debito. E non se la sta cavando per niente bene. Che cosa devono fare allora, in queste circostanze, i singoli paesi e la zona euro? Non quello che è stato fatto in Irlanda, innanzitutto. Il sistema bancario irlandese non è troppo grande per fallire, è ancora peggio: è troppo grande per essere salvato. Il primo compito dello stato è salvare se stesso, non caricare i contribuenti dell'obbligo di soccorrere prestatori sconsiderati.

Lo stato irlandese avrebbe dovuto salvare se stesso mediante una drastica ristrutturazione delle passività delle banche. Il debito delle banche semplicemente non può essere debito pubblico. Se tale dev'essere, allora i banchieri devono essere considerati come funzionari pubblici e le banche come enti pubblici. Sono i creditori che devono sopportare l'onere. Resta il problema del debito pubblico. Quello che serve in questo caso, come riconoscono i leader della zona euro, è una combinazione di finanziamenti generosi e ristrutturazione: i primi per invertire la tendenza distruttiva al panico, la seconda per riconoscere che il default è una realtà. Gestire questa combinazione non sarebbe per nulla facile.

E comunque il fatto di partecipare all'unione monetaria ha trasformato la posizione finanziaria degli stati membri, che non possono più contare su una Banca centrale malleabile e una flessibilità valutaria. Il risultato è che le probabilità di essere costretti al default sono molto più alte di prima, e i mercati l'hanno capito. Le uniche vie d'uscita sarebbero un acquisto dei titoli di stato da parte della Bce o un'unione dei conti pubblici, con la capacità di soccorrere i membri in difficoltà. Entrambe le soluzioni sono inconcepibili: la Germania sicuramente abbandonerebbe l'euro.

Il grande interrogativo quindi non è se la zona euro è in grado di evitare un'ondata di crisi finanziarie e dei conti pubblici. L'interrogativo è se la moneta unica sopravvivrà. È un problema più politico che economico. Un'unione monetaria può sopravvivere al default di uno o più stati. Il dubbio semmai è se i paesi membri continueranno a ritenere che la moneta unica gli conviene. Il problema per i paesi in surplus è che devono finanziare quelli in deficit, accettare aggiustamenti delle partite correnti o spingere la zona euro a una situazione di surplus con l'estero. Il problema per i paesi in deficit è che il costo di lasciare l'euro consiste nell'affrontare una crisi del debito. Se si sono già verificate, i costi appariranno minori. Se pensano di aver sostituito le crisi valutarie con le crisi del debito, che non servono neppure a ripristinare crescita e competitività, potrebbero giungere alla conclusione che l'euro è un cattivo affare, e il collante politico potrebbe venir meno. Calamità del genere possono accadere. Sta agli stati membri ora fare in modo che non accadano.

(Traduzione di Fabio Galimberti)
© FINANCIAL TIMES

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