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Questo articolo è stato pubblicato il 02 dicembre 2010 alle ore 08:05.
L'ultima modifica è del 02 dicembre 2010 alle ore 07:40.
Il piano casa, che avrebbe dovuto consentire l'ampliamento delle abitazioni esistenti, è l'opera incompiuta per eccellenza nell'Italia delle incompiute, il simbolo di una ragnatela di false promesse che sta soffocando e spegnendo uno dei settori più importanti della nostra economia, quello delle costruzioni, utilizzato intelligentemente in altri paesi europei come cura ricostituente per accelerare la crescita del dopo-crisi.
Si potrebbero utilmente citare altri esempi di questo groviglio di politiche avviate con superficialità senza che poi nessuno se ne senta responsabile nel cammino dell'attuazione, di questa continua corsa a ostacoli in cui l'impresa è ostaggio dei molteplici livelli istituzionali in conflitto tra loro, di mezze misure cui abilmente manca sempre un tassello per tradursi da annuncio a realtà, cantieri, lavori, pagamenti. In questo teatrino così lontano dalle sofferenze che vivono oggi le imprese troviamo molte delle ragioni che ha spinto ieri il settore dell'edilizia a scendere in piazza.
Basterebbe forse citare la delibera con cui il 6 novembre 2009 il Cipe assegnava al piano delle piccole opere 413 milioni. Quella delibera, un anno dopo, aspetta ancora di essere pubblicata sulla Gazzetta ufficiale: si è persa nel groviglio di un iter che vede tappe volutamente complicate alla ragioneria, alla conferenza stato-regioni, alle commissioni parlamentari, alla registrazione della corte dei conti dove è ferma ora.
Il piano casa è però il fuoriclasse di questo stato di cose, per importanza degli investimenti che avrebbe potuto attivare e per il conflitto stato-regioni-comuni che ha scatenato fin dal primo minuto. Gli istituti di ricerca - ancora non rassegnati a vedere morto il piano casa - lo pesano per il 2011 con ben due punti percentuali del Pil edilizio. Per il Cresme, il suo decollo porterebbe l'edilizia fuori di una crisi che dura da cinque anni, mutando un -1,1% in un +0,9%.
Eppure nulla si muove. Dalla periferia non arrivano segnali incoraggianti, tali da far pensare che qualcosa stia cambiando e che l'originaria idea berlusconiana venga fatta propria dagli altri livelli istituzionali con più entusiasmo di quanto sia accaduto finora.
Qualche regione che ha cambiato colore alle ultime elezioni regionali, passando dal centro-sinistra al centro-destra, come Lazio e Piemonte, prova a semplificare le regole e ad accelerare il progetto, ma senza troppa convinzione che questa sia davvero una priorità, considerando che, a sei mesi dall'insediamento, quasi nulla di concreto è ancora successo.