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Commenti e Inchieste

Il default non sia un tabù. Soltanto una minaccia credibile può innescare prassi virtuose

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Questo articolo è stato pubblicato il 03 dicembre 2010 alle ore 07:46.
L'ultima modifica è del 03 dicembre 2010 alle ore 08:18.

Le difficoltà di comunicazione hanno accompagnato l'Unione monetaria europea fin dal principio, ma la crisi economica ha dato vita a una babele di voci. Un esempio recente sono le dichiarazioni del presidente dell'Unione europea Herman Van Rompuy, che ha detto che la crisi di indebitamento di alcuni stati potrebbe mettere a rischio la sopravvivenza stessa dell'Unione.

Ora molti commentatori inseriscono in questa lista di insuccessi comunicativi l'annuncio che i detentori dei titoli di stato emessi a partire dal 2013 dovranno accettare di accollarsi delle perdite nell'eventualità di una crisi di debito pubblico. Questo annuncio, secondo i commentatori, ha fatto aumentare l'incertezza e spinto in giù il valore dei titoli di stato di Irlanda, Portogallo e Spagna. Non tutti la pensano allo stesso modo, ma quasi tutti sembrano convinti che uscirsene con una dichiarazione di questo tenore prima della fine della crisi sia stata senza dubbio una cattiva idea.

Non dico che l'annuncio meriti il Nobel della comunicazione, ma ritengo che la scelta di tempo e il messaggio di fondo, indipendentemente dalle critiche, siano quelli giusti.
Per prima cosa, mi sembra di cruciale importanza, in questa fase di sviluppo dell'Unione monetaria, prevedere, se si vuole istituire un meccanismo permanente per il salvataggio dei paesi in difficoltà, anche un sistema di ristrutturazione del debito pubblico che obblighi gli investitori privati a subire una perdita finanziaria.

Perché i contribuenti devono essere eternamente ostaggio di investitori che si godono i vantaggi di interessi alti con la sicurezza che quando un paese indebitato finirà nei guai le istituzioni interverranno a salvarli? Il default dev'essere una minaccia credibile, altrimenti gli investitori saranno fortemente incentivati ad acquistare titoli di stato che offrono tassi di interesse alti, senza prendere in considerazione i rischi a essi associati. Abbiamo visto le conseguenze di un comportamento del genere con lo spread sui titoli di stato di Grecia e Germania, che per un lungo periodo è rimasto quasi nullo.

Per anni il fatto che il deficit di bilancio e il debito pubblico fossero ben al di sopra dei parametri stabiliti dal trattato di Maastricht non ha avuto nessun effetto rilevante sui tassi di interesse, incoraggiando gli stati a ignorare la necessità di rimettere in ordine i conti pubblici e contribuendo in modo significativo alla crisi che stiamo vivendo. E a chi dice che bisognava aspettare che finisse la crisi prima di fare qualsiasi annuncio rispetto all'istituzione di un meccanismo per la risoluzione dei problemi di debito pubblico rispondo che a mio parere l'annuncio non è stato affatto prematuro. Fintanto che gli investitori potranno ragionevolmente sperare in un intervento di salvataggio da parte dello stato, le decisioni sugli investimenti saranno distorte da illazioni su interventi motivati da ragioni politiche.

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Più i mercati saranno convinti che l'Unione europea o altre autorità sosterranno un'economia in crisi, più numerose saranno le decisioni di investimento basate su queste illazioni, e maggiore sarà il rischio di tracolli delle banche qualora questo intervento di supporto non risultasse disponibile. Aumenterebbero le pressioni per dare prova di "solidarietà" e la tesi «non c'è alternativa al salvataggio» si trasformerebbe in un mantra permanente.

Il caso delle Landesbanken tedesche è un buon esempio di quello che succede quando si aspetta troppo per fare le riforme. Quando è stato annunciato che la revoca progressiva delle garanzie pubbliche sarebbe diventata effettiva solo nel giro di alcuni anni, le Landesbanken hanno usato i loro rating in tripla A (rimasti tali durante il "periodo di grazia") per emettere grandi quantità di obbligazioni a tassi di interesse molto bassi, investite poi in attività ad alto rischio come i mutui subprime. I risultati oggi sono sotto gli occhi di tutti.

Indubbiamente, progettare un meccanismo per il default degli stati è un'impresa colossale. Ma c'è un consenso generale sull'idea che l'euro oggi ha bisogno di un meccanismo permanente per la gestione delle crisi. Qualunque accordo su un nuovo fondo (o come altro lo si voglia chiamare) che non obblighi anche gli investitori privati ad accettare una decurtazione del valore dei loro titoli sarebbe un invito ai mercati a speculare su futuri salvataggi, e minerebbe, o addirittura vanificherebbe, i segnali che mandano i mercati sulla buona o cattiva gestione dei conti pubblici. Le sanzioni imposte dai mercati sono più che mai necessarie, perché i governi non hanno rafforzato il patto di crescita e stabilità, che avrebbe dovuto fungere da strumento di controllo sul comportamento finanziario dei medesimi.

Le proposte per questo meccanismo, nelle loro linee generali, sono state presentate. A quanto sembra, gli investitori privati subiranno perdite solo in casi estremi e a seguito di decisioni specifiche. Quale autorità avrà il compito di giudicare che la posizione debitoria di un paese è insostenibile, e che bisogna avviare un processo di ristrutturazione? Un sistema di questo tipo non fornirebbe né credibilità né certezze. Sarebbe basato su decisioni discrezionali e preparerebbe il terreno per tensioni politiche, incertezza e volatilità dei mercati.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

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