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La divergenza ormai palese Berlusconi-Bossi sul voto anticipato

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Questo articolo è stato pubblicato il 31 dicembre 2010 alle ore 08:17.
L'ultima modifica è del 31 dicembre 2010 alle ore 07:34.

Fino a oggi il patto politico e di convenienza fra Berlusconi e Bossi ha resistito a tutto e ha permesso al premier di rintuzzare l'attacco culminato nelle mozioni di sfiducia del 14 dicembre. In sostanza, ha salvato il governo. Ora però emerge una divergenza cruciale che segnerà l'avvio del nuovo anno e il destino della legislatura....

Da un lato, Berlusconi vorrebbe proseguire a oltranza, se possibile fino al 2013, convinto di raggranellare strada facendo i voti parlamentari indispensabili per tamponare la fragilità della maggioranza. In altri tempi si sarebbe detta la ricetta sicura del «tirare a campare», secondo la formula andreottiana: un esecutivo troppo debole per nutrire ambizioni, appunto un «governicchio», eppure determinato a resistere.
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Dall'altro lato, Bossi è in uno stato di crescente disagio e teme che la «palude romana» finisca per ingoiare la sua riforma federalista. Oppure, se vogliamo suggerire un'interpretazione meno benevola, ma forse più veritiera, teme che passi il momento magico e che gli italiani comincino a comprendere che la riforma avrà bisogno di tempi molto lunghi – sanando grandi contraddizioni, economiche e amministrative – prima di produrre risultati tangibili.
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In altri termini, la Lega vorrebbe votare in fretta, sventolando la sua bandiera federalista; Berlusconi, no. La Lega ha paura del tirare a campare, cioè di un «effetto palude» sui propri livelli di consenso elettorale, oggi molto alti; Berlusconi vede troppi rischi e non poche incognite nel ritorno ravvicinato alle urne. Non è ancora una frattura, ma certo è un'incrinatura strategica di non poco conto.
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Deriva anche dal fatto che il Carroccio e i suoi uomini, non solo Bossi ma Maroni, Calderoli e l'intero gruppo dirigente, pensano al loro futuro e intendono essere protagonisti del prossimo Parlamento. Il presidente del Consiglio sa invece che il suo potere personale ha raggiunto lo «zenit» in questa legislatura: nella prossima il suo ruolo sarà inevitabilmente diverso, per ragioni politiche e anagrafiche. Logico che preferisca attendere, visto che a Palazzo Chigi nessuno lo insidia e le opposizioni sono troppo frastornate per proporre un'alternativa credibile.
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Nella Prima Repubblica ci si sarebbe limitati al piccolo cabotaggio quotidiano, all'insegna del rinvio. Ora non è più possibile, a meno di non voler certificare il fallimento, peraltro palese, del bipolarismo fin qui sperimentato. Il vecchio sentiero non è praticabile perché esiste un partito territoriale come la Lega che obbedisce a una logica talvolta ambigua, ma sempre collegata a un obiettivo preciso. E fino a oggi Bossi è stato abile nell'arte di non farsi logorare.
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Berlusconi sa bene che la fiducia ottenuta a metà dicembre gli impone di governare. Ma questa volta c'è bisogno di un programma serio, si potrebbe dire di un progetto a medio termine che non sia solo annunciato. Un programma per cui al momento manca la cornice politica, perché è evidente che l'Udc di Casini non ha intenzione di farsi coinvolgere più di tanto (al di là di uno svogliato appoggio parlamentare a qualche provvedimento di legge) nell'epilogo della lunga stagione berlusconiana.

Però il leader centrista non vuole nemmeno offrire all'asse Pdl-Lega il pretesto per chiedere lo scioglimento delle Camere. Questo è un nodo che Berlusconi e Bossi dovranno sciogliere fra di loro, trovando un'intesa o consumando il loro dissidio. E poi dovranno parlarne con il Quirinale.

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