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Questo articolo è stato pubblicato il 08 marzo 2011 alle ore 11:26.
L'ultima modifica è del 08 marzo 2011 alle ore 06:39.

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Ma qualcuno ha letto il discorso del Cairo di Barack Obama? Il presidente americano certamente sì, avendolo anche scritto assieme al suo consigliere Ben Rhodes. Obama conosce così bene quel testo da sentire il bisogno di preparare un nuovo grande discorso al mondo arabo e islamico. Un discorso del Cairo 2.0 o, perlomeno, 1.5 come ha immaginato James Traub su Foreign Policy.

L'urgenza di un nuovo discorso è evidente: Obama sa che la politica mediorientale americana presentata al Cairo due anni fa è fallita, come peraltro avevano previsto a caldo i leader democratici egiziani da Ayman Nour a Saad Eddin Ibrahim.
Nei giorni scorsi alcuni commentatori americani si sono stupiti dell'eccessiva lentezza obamiana nell'abbracciare le rivolte popolari in Nord Africa e Medio Oriente. Il Washington Post e il New York Times si sono spinti fino a lodare la prontezza di riflessi dei leader europei, compreso Silvio Berlusconi, rispetto al distacco obamiano prima sull'Egitto e poi sulla Libia. La Casa Bianca, alla fine, si è schierata al fianco dei movimenti democratici, ma con juicio. Chi conosce il contenuto del discorso del Cairo non s'è meravigliato delle esitazioni iniziali di Obama.
La cautela mostrata davanti alle piazze nordafricane è la stessa che, nell'estate 2009, ha costretto il presidente americano a essere l'ultimo dei leader occidentali a condannare i brogli del regime teocratico di Teheran e le violenze degli ayatollah contro l'opposizione iraniana. La spiegazione di questa incertezza è nel discorso pronunciato al Cairo il 4 giugno 2009.

Al contrario di quanto si dice, specie sui giornali e nei talk italiani, Obama al Cairo non si è rivolto al popolo musulmano, alla piazza araba, ai bazar iraniani invitandoli ad abbracciare democrazia e libertà. Obama si è rivolto ai teocrati, ai despoti, agli ayatollah, ovvero ai regimi al potere da sessant'anni. Si è rivolto innanzitutto ai nemici dell'America, oltre che agli alleati.
Ospite di Hosni Mubarak, salutato alla vigilia come «una forza di stabilità», Obama è andato al Cairo a offrire la rinuncia americana al "regime change" e alle pressioni per le riforme liberali su cui George W. Bush aveva insistito dopo l'11 settembre. In cambio, Obama ha chiesto l'impegno degli autocrati arabi e islamici a non sostenere più il terrorismo, a non diffondere ulteriormente l'odio religioso e, nel caso iraniano, a fermare il programma nucleare. Questo è stato il senso politico del discorso del Cairo.
Obama non ha criticato i regimi autoritari. Non ha chiesto di riformare le società arabe e islamiche. Non ha incoraggiato le forze democratiche. Semmai ha tagliato del 50 per cento gli aiuti ai movimenti democratici egiziani e iraniani e del 70 per cento i finanziamenti alla società civile egiziana, mantenendo però l'assegno da un miliardo e trecento milioni di dollari annui per l'esercito di Mubarak.

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