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Questo articolo è stato pubblicato il 13 aprile 2011 alle ore 09:11.
L'ultima modifica è del 13 aprile 2011 alle ore 09:11.

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Nella classifica «Top Italian Scientists», è al terzo posto. Ma è anche il primo fra i ricercatori italiani che lavorano in Italia. Il primato dell'immunologo Alberto Mantovani – direttore scientifico dell'Istituto clinico Humanitas e da poco anche prorettore alla ricerca dell'Università di Milano – sta nell'aver pubblicato studi che sono stati largamente citati dai suoi colleghi di tutto il mondo. «Ho solo avuto la fortuna di fare il mio lavoro in modo competitivo», dice quasi per schernirsi. Pur restando in Italia.
Certo, anche Mantovani – classe 1948 – ha fatto esperienze in Inghilterra e negli Stati Uniti. Ma il suo cervello non è rimasto "in fuga": è rimpatriato. Prima per lavorare all'Istituto Mario Negri e poi per approdare all'Humanitas, sempre mantenendo incarichi di insegnamento.

Negli anni 70, Mantovani aveva sfidato il consenso scientifico rivelando che i macrofagi, cellule legate alle reazioni infiammatorie, svolgono una parte attiva nello sviluppo dei tumori. Poi, negli anni 80, il suo team di ricerca ha scoperto – per dirla con le sue semplici parole – che «l'evoluzione ha generato dei recettori che fanno da interruttore ma, invece di accendere la luce, intrappolano il dito». E i cosiddetti recettori "decoy", si sono rivelati una bella strategia per regolare le chitochine infiammatorie, con significative ricadute applicative che hanno ricevuto la dovuta eco nella stampa scientifica internazionale.

«L'Italia ha una grande tradizione nella ricerca clinica, ma rischia di gettarla al vento: gli studenti di medicina hanno sempre meno spazi per coltivarla», dice Mantovani. «Siamo oppressi dalla burocrazia: anche per far arrivare dall'estero un giovane a lavorare con noi, abbiamo procedure così difficili da risultare umilianti».
In realtà, il prorettore dell'Università di Milano non si lamenta troppo dei finanziamenti che scarseggiano, anche perché ci sono soluzioni alternative (lui cita l'Associazione italiana per la ricerca sul cancro). «Il nostro sistema di ricerca è come una macchina per la quale non ci danno pezzi di ricambio, e solo poca benzina». Può anche andare bene così, osserva Mantovani. «Possiamo anche trovarci da soli i pezzi di ricambio e la benzina. Ma, per favore, toglieteci il freno a mano».

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