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Questo articolo è stato pubblicato il 07 maggio 2011 alle ore 10:17.

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Nella scuola italiana lavorano quasi un milione di persone al servizio di circa otto milioni di alunni. Ma nessuno sembra contento del risultato. Non lo sono gli insegnanti, il personale non docente, le famiglie e gli studenti. E nemmeno i datori di lavoro e i professori universitari, che accusano la scuola di non preparare adeguatamente i giovani per il lavoro e la ricerca.

Ne esce l'immagine di un'istituzione che frena il Paese invece di essere il motore della sua crescita. Questa insoddisfazione generale, sapientemente descritta da Paola Mastrocola nel suo ultimo libro ("Togliamo il disturbo", Guanda), si accompagna alla sensazione che la scuola del passato fosse migliore, dalle elementari dello sperduto paese di montagna ai più prestigiosi licei del Paese. Mancano i dati sul tema, ma qualcosa deve essere successo se l'insoddisfazione è così diffusa e anche confermata, almeno per ciò che questi test possono dire, dai confronti internazionali del Programme for International Student Assessment (Pisa) che ogni tre anni ha l'obiettivo di accertare le competenze dei quindicenni scolarizzati.

Nell'ultima rilevazione, gli studenti italiani, pur risalendo la graduatoria dei 65 Paesi considerati, sono comunque al di sotto della media Ocse nella capacità di comprensione dei testi (486 punti contro 493) e ancor più in matematica (483 contro 496) e in scienze (489 contro 501). Risultati molto lontani da quelli massimi raggiunti dagli studenti di Shanghai (556, 600 e 575 rispettivamente) e comunque inferiori anche a quelli degli Usa e della maggior parte dei nostri partner europei. Sono almeno tre i fenomeni di lungo periodo su cui riflettere: l'allargamento a dismisura dell'istruzione superiore, la mancata modernizzazione dell'offerta formativa e l'incapacità del sistema di attrarre i laureati migliori alla professione di insegnante.

Come in altri Paesi, anche in Italia l'istruzione superiore è stata estesa a tutti, e ciò ha determinato un peggioramento medio della materia prima su cui la scuola opera: ossia la qualità dei suoi studenti. Questo non perché i giovani d'oggi nel loro complesso siano meno adatti allo studio. Il problema è che i pochissimi che si diplomavano in passato erano selezionati tra i più adatti a studiare materie inaccessibili agli altri: erano gli studenti Demonte che Paola Mastrocola vorrebbe in classe per poter insegnare Torquato Tasso (e non solo).

Quella del passato, però, era una scuola che escludeva una frazione di giovani altrettanto dotati ma provenienti da famiglie che non potevano permettersi un investimento così oneroso per i propri figli o non avevano le competenze per capirne i rendimenti. La probabilità di laurearsi di un italiano adulto negli anni 80 era inferiore al 7% se il padre era non laureato, mentre saliva a oltre il 65% se il padre era laureato. Nello stesso periodo in Usa le percentuali corrispondenti erano il 21% e il 61 per cento. Consentire ai giovani meno abbienti di proseguire gli studi è certamente una conquista civile. L'errore però è stato creare un sistema che di fatto spinge tutti, dotati o no, verso i difficili programmi "liceali", con il risultato di avere studenti che dormono in classe sognando l'iPod, davanti a insegnanti frustrati che devono spiegare Torquato Tasso, il latino e il calcolo differenziale a chi non riesce nemmeno a scrivere e far di conto.

Solo nell'ultimo anno, secondo il ministero della Pubblica istruzione, la popolazione scolastica è lievitata del 6,4% al classico e del 5,4% allo scientifico, tassi più che doppi rispetto all'incremento complessivo degli studenti delle superiori che si attesta sul 2,8 per cento. E quest'ultimo dato conferma il trend degli anni precedenti: dal 2001-2002 al 2006-2007 i licei hanno dovuto, non senza difficoltà, fare spazio a 203mila alunni (+25% in cinque anni), mentre gli istituti tecnici hanno salutato 38mila studenti.

Ciò è accaduto perché è rimasta invariata un'offerta formativa pensata nel secolo scorso per un mondo completamente diverso. Un'offerta basata su menù pre-costituiti, senza possibilità di modulare à la carte opzioni personalizzate al loro interno: liceo, istituto tecnico, professionale e così via. E sono menù con una gerarchia ben precisa, tale per cui il liceo è percepito come la scelta migliore per salire nella scala sociale. Ma il liceo, anche quello scientifico, purtroppo considerato più abbordabile, non è e non può essere una scuola di massa a meno di svuotarlo dei suoi contenuti originali (cosa che poi è effettivamente successa).

Un'istruzione di massa deve dare agli studenti margini per modulare il curriculum a seconda delle loro doti e aspirazioni. In ogni scuola, per ogni materia, dovrebbero esserci corsi base, alcuni obbligatori, e corsi avanzati da combinare a piacere, essendo i secondi riservati a coloro che se li meritano e li sanno apprezzare indipendentemente dalla classe sociale. L'eliminazione dei menù precostituiti aiuterebbe tutti, e in particolare i meno abbienti, ad accedere gradualmente, con l'aiuto degli insegnanti, alla preparazione più adatta a ciascuno senza dover scegliere in blocco programmi globalmente difficili e rischiosi. Al tempo stesso consentirebbe di ridurre la tanto lamentata distanza tra formazione e mercato del lavoro perché oggi le aziende richiedono persone che difficilmente corrispondono ai menù rigidi che il ministero impone.

Non deve sorprendere quindi che, pur in un periodo di crisi, abbondino i posti vacanti nelle imprese: nel primo trimestre 2011, secondo Unioncamere, per oltre il 28% delle 88.600 assunzioni previste si registrano difficoltà di reperimento, in particolare per tecnici dell'industria, delle costruzioni e della grande distribuzione. Per evitare questo, la transizione a un'istruzione di massa avrebbe dovuto combinarsi con la concessione alle scuole di una vera autonomia nel gestire un'offerta formativa diversificata e adattabile rapidamente nel tempo alle esigenze del mondo del lavoro e della ricerca, entro binari prestabiliti ma sufficientemente ampi.

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