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Questo articolo è stato pubblicato il 23 aprile 2011 alle ore 08:14.

«La riluttanza delle imprese italiane a quotarsi è storica. Da un lato perché nel nostro Paese c'è la tradizione a mantenere azionariati compatti e gli investitori esterni sono visti più come un vincolo che come un'opportunità. Dall'altro perché in Italia c'è, diciamo, una particolare riluttanza a condividere con il Fisco i profitti». Salvatore Bragantini, ex commissario Consob, ex presidente Pro Mac e oggi consulente di Borsa Italiana per la quotazione delle medie imprese, va dritto al punto: della quotazione in Borsa sono visti più spesso i vincoli che le opportunità.
Le pecche del capitalismo italiano sono note. Però lo Stato non ha mai cercato di incentivare la quotazione in Borsa, per esempio con agevolazioni fiscali. Non crede che sia mancata una politica industriale?
La coperta è corta e il discorso complesso. È vero che il credito è avvantaggiato: gli interessi, a differenza dei dividendi pagati dalle azioni, sono infatti deducibili fiscalmente. Di conseguenza, agli imprenditori fiscalmente conviene più chiedere un finanziamento bancario che raccogliere capitali quotandosi in Borsa. Ma anche le banche hanno incentivato questo trend: preferiscono spesso erogare credito più che accompagnare le imprese alla Borsa. Bisogna però evitare che le aziende vedano la Borsa solo come via d'uscita quando le banche non vogliono più finanziarle.
E come si esce da questo imbuto?
Credo che la crisi finanziaria, con le difficoltà sul fronte del credito, aumenterà il bisogno di capitale di rischio. Per il resto, da un lato si potrebbe ridurre il vantaggio fiscale del debito, agendo ulteriormente sulla deducibilità degli interessi; dall'altro, rispolverare una vecchia proposta della commissione Mirone per la riforma delle Spa, che prevedeva l'obbligo, al di sopra di certe dimensioni, di certificare i bilanci di tutti i gruppi. Questo ridurrebbe i troppi, e sleali, vantaggi dell'opacità.
Perché la proposta fu bocciata?
Indovini un po': si disse che una norma di questo tipo avrebbe limitato la libertà d'impresa. Io credo invece che il peso di queste imprese nell'economia del Paese lo renda necessario. Si potrebbe anche trovare un compromesso, magari tenendo inizialmente alta l'asticella sopra la quale anche un'impresa non quotata sia obbligata alla certificazione.
Lei è stato presidente della Pro Mac, società che gestiva il listino per le piccole imprese. Quali ragioni elencano le imprese quando non vogliono quotarsi?
Il fatto che il numero perfetto di azionisti è dispari e inferiore a tre... Gioca però anche il timore che le minoranze possano chiedere un cambio di management: quando questo è familiare, è un bel problema. (My.L.)
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