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Questo articolo è stato pubblicato il 16 aprile 2011 alle ore 11:15.
L'ultima modifica è del 16 aprile 2011 alle ore 11:16.

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Il fisco frena la crescita? Questione fondamentale, decisiva per un Paese che da un decennio è inchiodato a ritmi di crescita tra lo 0 virgola e l'1% o giù di lì. La pressione fiscale nel 2010, ha certificato l'Istat, è risultata pari al 42,6% del Pil, mezzo punto in meno rispetto al 43,1% del 2009, ma non vi è da farsi molte illusioni perché, stando alle ultime stime del Governo, aggiornate con il nuovo Def, si scenderà al 42,5% a fine 2011, per poi risalire al 42,7% nel 2012 e tornare nuovamente al 42,6% nel 2013 e al 42,5% nel 2014. Potrebbe andare diversamente con un debito pubblico che viaggia verso il 120% del Pil e che assorbirà quest'anno il 4,8% del Pil, vale a dire oltre 70 miliardi di spesa per interessi?

In realtà, il problema non è tanto nel livello complessivo della tassazione, quanto nella distribuzione del carico fiscale per categorie di contribuenti. I dati parlano chiaro: l'incidenza reale su quanti pagano integralmente imposte e contributi è del 51,4 per cento. Siamo tre punti sopra la media di eurolandia come pressione fiscale complessiva (quella fotografata dalle statistiche ufficiali, ovviamente). Da elaborazioni del Centro studi di Confindustria su dati della Commissione europea, risulta che nel 2009, ultimo anno utile per le comparazioni internazionali, siamo al sesto posto dopo Danimarca (49%), Svezia (47,8%), Belgio (45,3%), Austria (43,8%) al pari della Francia e sopra Paesi del calibro della Germania (40,7%) e Regno Unito (36,2%). L'imposizione fiscale complessiva sulle imprese, stando ad alcune recenti simulazioni, si attesta da noi al 58%, contro il 43% della Germania, il 40% della Gran Bretagna e il 29% della Spagna. La Francia è al 60 per cento.

Riccorriamo all'abusato, ma sempre valido refrain: chi paga per intero le imposte deve sostenere una sorta di tassa aggiuntiva, occulta, per colmare quell'imponente buco di gettito provocato da chi al contrario si sottrae, con i mille espedienti dell'italico ingegno, al dovere fiscale. Si tratta di 120-125 miliardi l'anno, l'equivalente di 4-5 manovre correttive, con un sommerso che i dati Istat fotografano tra il 16,3 e il 17,5% del Pil: ai valori attuali dai 255 ai 275 miliardi. L'evasione della base teorica dell'Iva è del 28,8 per cento. Peggio di noi (dati 2006) c'è solo la Grecia con il 30,2%, mentre il gettito totale evaso equivale al 2,3% del Pil.
Sarebbe ingeneroso ignorare che negli ultimi anni, per l'effetto congiunto dell'incremento dei controlli e dell'affinamento dell'attività di riscossione, tornata sotto l'ombrello pubblico di Equitalia, i risultati annuali della lotta all'evasione siano incoraggianti. Gli ultimi dati si riferiscono al 2010 e ammontano a 25 miliardi di maggiori incassi. Di questi, 10,5 miliardi sono frutto di contrasto all'evasione fiscale vera, con il potenziamentio del redditometro e la caccia ai tesori nascosti nei paradisi fiscali. Altri 6,6 miliardi sono in realtà minori uscite per l'erario, perché frutto della stretta sulle compensazioni indebitate avviata nel gennaio 2010, che sta dando risultati incoraggianti. A tali importi vanno aggiunti 1,9 miliardi di maggiori incassi garantiti da Equitalia e, nel contrasto al sommerso, vanno considerati anche i 6,4 miliardi recuperati dall'Inps sul fronte contributivo.

Risultati apprezzabili, ma la realtà offerta dai dati del ministero, relativi all'anno di imposta 2009, confermano che la strada è ancora lunga e tortuosa. Emerge che si è appena cominciato ad aggredire il moloch: il 49,07% (20,4 milioni di soggetti) dichiara redditi Irpef inferiori a 15mila euro l'anno e il 41,3% (circa 17 milioni) dichiara redditi tra i 15mila e i 35mila euro. Il 90,2% dei contribuenti dichiara meno di 35mila euro, e solo lo 0,17% dichiara redditi superiori a 200mila euro. La radiografia più recente dell'Agenzia delle Entrate sull'evasione mette in luce che il contribuente evade in media 17,87 euro ogni 100 euro d'imposta versati al Fisco. Se si escludono redditi di lavoro dipendente, pensioni, interessi sui BoT e conti correnti, il peso dell'evasione sul dichiarato arriva a 38,41 centesimi.

In questo contesto, facciamo senz'altro nostre le considerazioni di Mario Draghi alla Cattolica di Milano del 21 marzo scorso: aumentare le aliquote fiscali è fuori discussione. Comprometterebbe l'obiettivo della crescita, sottoporrebbe i contribuenti onesti a un'insopportabile vessazione. Le aliquote andrebbero diminuite, man mano che si recuperano evasione ed elusione. «Non resta che il controllo della spesa, ma un controllo selettivo, orientato dalla distinzione fra ciò che favorisce la crescita e ciò che la ostacola. Scelte politiche sagge non possono che poggiare su una valutazione capillare degli effetti anche macroeconomici di ogni voce di spesa».

Gli squilibri del prelievo pesano su impresa e lavoro. Se guardiamo al cuneo fiscale e contributivo, osserviamo come pesi al 109,9% della retribuzione netta, contro il 103,6% della Germania, il 96,9% della Francia e il 48,1% del Regno Unito. Ma c'è una parte dell'economia italiana che non ha subìto gli effetti della recessione. Dopo la lenta flessione del 2001-2007, la quota del sommerso sul Pil dell'economia nascosta (shadow economy nei confronti internazionali) è tornata a salire nel 2008 (ultimo dato disponibile) al 16,9 per cento. Secondo l'analisi del Centro studi Confindustria dell'autunno scorso, l'incremento «è bruscamente accelerato nel 2009», tanto che il peso del sommerso ha superato il 20% del Pil. Dunque, il valore reale dell'evasione va proiettato su dimensioni superiori ai 120 miliardi delle stime ufficiali.

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