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Questo articolo è stato pubblicato il 22 aprile 2011 alle ore 07:36.

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«Tra il '91 e il '94 mia madre lavorava per il Governo – spiega Andreas Borg, un tipo giovane e sveglio che di mestiere fa il ministro delle Finanze svedese - e perse il posto tre volte durante la crisi finanziaria. Sappiamo che cosa vuol dire, ma ci si tira su». Borg fa parte di una generazione giovane e poco formale - coda di cavallo e orecchino, per intendersi - che ha sostituito l'ideologia con la prassi. E la prassi l'ha vissuta in famiglia non tanto tempo fa. Così di compassione per le lamentazioni greche ne ha poca.

Quando ci si confronta con la scarsa pazienza dei Paesi del Nord Europa nei confronti dei debiti di Grecia e Portogallo si ha il senso di un semplice pragmatismo: i debiti si pagano. Nulla a che vedere con l'anti-europeismo caricaturale che da un po' prende piede nei media italiani, un misto confuso di analfabetismo economico, nazionalismo e insofferenza per le regole.

Gli svedesi sono passati da una dura crisi bancaria vent'anni fa, quando lo spread sui tassi tedeschi era salito a 500 punti base e il Paese aveva sfiorato il fallimento. Ora sono l'economia avanzata più dinamica del mondo. Non c'è Paese europeo che cresca di più e il debito pubblico scenderà al 20% del Pil entro il 2014. Dal 2008 a oggi, mentre tutti aumentavano il debito, Stoccolma lo ha ridotto. Le tasse sono scese del 4% e la spesa pubblica, pur aumentando del 3%, è stata più che compensata da una fortissima crescita delle entrate fiscali.

Come la Svezia, anche la Finlandia. Negli anni 80 aveva accumulato debiti e quando è arrivata la crisi del '91 ha dovuto ripagare tutto entrando in recessione. La disoccupazione è decuplicata in tre anni e il Pil è sceso del 13 per cento. Ma alla fine Helsinki rimborsò i finanziamenti che aveva ricevuto dalla Svezia, così come aveva fatto, forse unico Paese al mondo con i debiti della Prima guerra mondiale, e poi nel dopoguerra quando le donne avevano fuso le vere nuziali per dare l'oro alla patria e tenerla ai margini della sfera sovietica. Durante la crisi del '91-94 in un solo anno Stoccolma prestò a Helsinki l'equivalente di tutto il bilancio del settore pubblico finlandese. Ci vollero molti anni di dure restrizioni, ma alla fine il debito fu estinto. Ora anche a Helsinki, come a Stoccolma, è difficile convincere i cittadini che i greci sono diversi e che a loro è concesso cavarsela a spese altrui. E lo stesso vale per l'Austria, l'Olanda e in buona parte per la Germania.

Si tratta di neo-nazionalismo? Di bisogni identitari negati da Maastricht? Niente affatto. Quello che si chiede alla Grecia è che faccia quello che hanno già fatto tutti questi Paesi: politica di bilancio molto severa, coesione sociale attraverso un welfare molto ben funzionante, investimenti in tecnologia e un mercato del lavoro efficiente. Nessuno dice che sia facile. Nei fatti si è trattato di cambiare la cultura politica del Paese. A questo serve l'Europa, altro che riscoperta delle identità nazionali, come si dice in Italia.

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