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Questo articolo è stato pubblicato il 19 maggio 2011 alle ore 07:50.
L'ultima modifica è del 19 maggio 2011 alle ore 06:39.

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Antonino Pesce, rosarnese, boss indiscusso di una delle cosche calabresi più ramificate anche fuori dai confini regionali, non sa di essere intercettato e ripreso anche nel carcere di Napoli dove è detenuto. A fine marzo 2007, Antonino parla con il nipote Francesco. Gli spiega come fare soldi e avere tanti amici e gli indica come esempio di virtù il figlio.

«Lui ha amici nel pallone – dice il boss - e ci portano affari... e ci portano affari... ha un amico che compra e che vende e ci porta affari... questo è l'inserimento che dovete fare». Ripete la parola "affari" fino alla noia anche con il cognato Rocco, con il quale, in un altro colloquio intercettato insiste. «Che c'è il campo... il pallone, vedi che ci sono 22 giocatori... quelli portano pane... uno viene da un paese, chi viene da un altro».
«Il calcio porta radicamento e controllo del territorio», spiega Claudio Petroziello, comandante del nucleo di Polizia tributaria della Gdf di Reggio Calabria, che il 21 aprile scorso, su delega della Procura, nell'operazione All clean, ha fatto piazza pulita delle proprietà della cosca di Antonino Pesce. Un sequestro da 190 milioni nel quale figurano due squadre di calcio dilettantistiche: la Cittanova Interpiana e la Sapri calcio, Salerno, provincia nella quale gli affari della ‘ndrangheta spesso si uniscono con quelli della camorra.

Da Reggio (Calabria) a Reggio (Emilia) la musica non cambia. «Le cosche di ‘ndrangheta insediate qui da decenni – spiega Enrico Bini, presidente della Camera di commercio di Reggio Emilia – hanno impresso una svolta alle loro attività e ora investono nelle squadre dilettantistiche creando consenso. La stessa cosa fanno nelle Proloco. Hanno capito che dove c'è sport c'è aggregazione e possibilità d'infiltrarsi a tutti i livelli». Più chiaro di così si muore: football, affari e malavita, da un capo all'altro d'Italia, creano un legame strettissimo. Il 21 luglio 2010 la Schiavonea '97 di Corigliano Calabro (Cosenza), dove Rino Gattuso è nato e dove ha dato i primi calci a un pallone, finì coinvolta nell'operazione Santa Tecla, che portò all'arresto di 67 persone. L'accusa della Dda di Catanzaro per la società è di essere stata una "lavatrice" del pizzo. Il processo inizierà il 30 maggio davanti al Gip.

In Calabria, oltretutto, il rispetto per i boss è sacro. Nel novembre 2009 a San Luca la squadra impegnata nel girone D della prima categoria giocò con il lutto al braccio per rispetto a un compagno del boss Antonio Pelle, detto Gambazza, morto pochi giorni prima. Già nell'ottobre '97 (Locri-Sciacca) e nell'ottobre 2004 (Strongoli-Isola Capo Rizzuto) era successo qualcosa di simile, ma ormai in tutto il Sud calcio fa rima con mafia nel nome degli affari: dalla Campania alla Sicilia. Il 29 marzo 2010 fu inizialmente posta sotto sequestro la squadra di calcio del Giugliano, che militava nel girone A del campionato regionale d'Eccellenza, perché secondo la Procura di Napoli era riconducibile a un uomo vicino al potente clan Mallardo, Giuseppe Dell'Aquila.

Due mesi dopo, il 24 maggio 2010, questa volta in Sicilia, con l'operazione Leonina Societas scattarono sette ordinanze di custodia cautelare emesse dal Gip Gianbattista Tona su richiesta della Dda di Caltanissetta. I dettagli dell'operazione furono chiariti dal capo della Procura nissena, Sergio Lari: «Obiettivo di Cosa nostra non era solo quello di decapitare i vertici del consorzio che all'epoca gestiva alcune imprese dell'indotto attorno al polo petrolchimico di Gela, ma anche quello di gestire la squadra di calcio locale, all'epoca chiamata Juveterranova, militante in C2, e di costituire una joint-venture con la Juventus, tramite l'amicizia che un boss millantava con un noto dirigente del club bianconero». Per alcuni imputati, dice Tona, è in corso il giudizio abbreviato a Caltanissetta, per gli altri a breve il dibattimento davanti al Tribunale di Gela.

L'operazione partiva da lontano: il tentato omicidio a Gela il 2 settembre '98 di Fabrizio Lisciandra, presidente della squadra di calcio Juveterranova. Si pensò a un avvertimento mafioso. Un anno fa si scoprì che il boss Daniele Emmanuello, morto il 3 dicembre 2007 nelle campagne di Enna mentre tentava l'ennesima fuga, voleva che Lisciandra rassegnasse le dimissioni da presidente della società per imporre un proprio gruppo. Al suo rifiuto la cosca ne decise l'eliminazione.
Il 22 novembre 2009 il Potenza calcio fu travolto dalla figura di Antonio Cossidente, già condannato per associazione mafiosa e ora pentito, che sta vuotando il sacco sul rapporto tra mafia lucana e società calcistiche. Dalla Basilicata alla Puglia il passo è breve e anche se è la provincia di Bari quella in cui parte della tifoseria è più sensibile alle manifestazioni da stadio a favore di affiliati ai clan, è Lecce quella in cui il matrimonio tra calcio e malavita è più preoccupante. A Galatina, Monteroni, Poggiardo, Racale, Squinzano, Taurisano e Tricase, nei cda delle squadre, negli assetti societari, nella dirigenza e persino tra gli steward erano inseriti a vario titolo – secondo quanto ha cristallizzato a luglio 2010 la Procura nazionale antimafia – alcuni soggetti ritenuti vicini alla criminalità organizzata leccese o persone condannate in vari gradi di giudizio per reati che vanno dall'associazione mafiosa al traffico di droga o, ancora, soggetti che frequentano abitualmente persone conosciute per la loro familiarità con i clan della zona.

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