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Questo articolo è stato pubblicato il 20 giugno 2011 alle ore 11:40.
L'ultima modifica è del 20 giugno 2011 alle ore 13:49.

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Mentre molti investitori si leccano ancora le ferite per le perdite subìte durante la crisi finanziaria, c'è il pericolo che venga dissipata un'importante lezione che la crisi ci ha insegnato: l'importanza che il risparmiatore presti una costante attenzione ai rischi dei suoi investimenti e, fatto ancor più importante, che quando investe i propri risparmi abbia consapevolezza del rischio che assume.

Ma questa consapevolezza dipende dal tipo di informazione che è messa a disposizione dell'investitore al momento di decidere se investire in uno strumento oppure no e dal modo in cui l'informazione sul rischio è trasmessa.

Se compriamo una confezione di uova la data di scadenza è un'informazione sufficiente sul rischio di avaria del prodotto: se le consumiamo oltre quella data sappiamo predire con buona approssimazione a che conseguenze andiamo incontro. Qualcosa di analogo si impone con i prodotti finanziari. È importante trovare un modo di trasmettere l'informazione sul rischio cui un investitore va incontro se investe in quel prodotto: l'informazione deve essere intellegibile e deve dare il senso delle conseguenze.

Nel caso di un prodotto finanziario rivelare la distribuzione dei valori futuri dell'investimento è la via maestra per la misurazione del rischio che si corre. Se mi dicono che se oggi investo 100 euro, con una probabilità del 40% dopo un anno posso perdere - poniamo - il 25% del valore investito, con una probabilità del 10% guadagno quanto un titolo a tasso fisso (il 2%) e con probabilità del 50% ottengo un rendimento positivo in media del 35%, ho una buona visione del rischio che corro. So per esempio che in quattro casi su dieci mi ritroverò con 75 euro per ogni 100 investiti.

Questo, in nuce, era l'approccio che la Consob aveva adottato sin dal 2007. Facendo tesoro della lezione della crisi aveva imposto agli emittenti di titoli strutturati che il prospetto d'offerta contenesse un'efficace disclosure del rischio (nonché dei prezzi e costi dell'investimento, e anche dell'orizzonte appropriato, approccio denominato in gergo "risk-based" o "a 3 pilastri").

Ora pare che la Consob (assieme alle autorità europee) abbia intenzione di abbandonare questo approccio a favore di un altro cosiddetto "what-if": in sintesi, si costruiscono tre scenari detti "sfavorevole", "neutrale" e "favorevole" e si comunicano questi al cliente. La scelta di come definire i tre scenari è a discrezione dell'emittente, il che non depone bene.

Per capire le potenziali differenze applichiamo le due strategie a un caso concreto: quello del "Convertendo" Bpm 2009/2013, un'obbligazione con cedola 6,75% più una call americana lunga e una put europea corta sulle azioni Banca Popolare di Milano (un prodotto strutturato assurto recentemente agli onori della cronaca). Il prospetto che i sottoscrittori di questo titolo si trovarono di fronte seguiva il primo approccio. In esso si avvertiva il sottoscrittore che con il 68,5% di probabilità si sarebbe ottenuto a scadenza (nel 2013) una redditività negativa di circa il 40%, nel 24,3% dei casi un'elevata redditività (+62%) e nei casi rimanenti una redditività prossima a un titolo privo di rischio. Questa informazione fa capire anche a un risparmiatore sprovveduto che c'è un rischio molto elevato e asimmetrico: chi vuole fare una bella scommessa, si accomodi.

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