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Questo articolo è stato pubblicato il 26 giugno 2011 alle ore 16:26.

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Fede e ragione devono collaborare. Nella foto Benedetto XVI durante la celebrazione del Corpus Domini (Ansa)Fede e ragione devono collaborare. Nella foto Benedetto XVI durante la celebrazione del Corpus Domini (Ansa)

Il sessantesimo anniversario dell'ordinazione sacerdotale di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI il prossimo 29 giugno, sarà certo occasione di molteplici letture del contributo da lui dato alla Chiesa e alla società del nostro tempo. Vorrei limitarmi a offrire qui una sola chiave di interpretazione della sua opera di pensatore e di pastore, cogliendovi specialmente i tratti dell'uomo totalmente «al servizio della parola di Dio che cerca e si procura ascolti tra le mille parole degli uomini» (come egli stesso ebbe a scrivere di sé alcuni anni fa nella Prefazione al volume di Aidan Nichols, "Joseph Ratzinger").

Chi cerca e si procura ascolti non ha nulla del presuntuoso possessore della verità che voglia imporla agli altri a colpi di clava: Ratzinger pone e accoglie domande vere e non offre mai risposte che non siano rigorosamente argomentate. Ne è prova tra tante il dialogo svoltosi nel gennaio 2004 a Monaco di Baviera fra lui e il filosofo Jürgen Habermas su "I fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale".

Se Habermas può essere considerato fra i più influenti pensatori tedeschi del momento, Ratzinger non è solo il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede divenuto oggi Papa Benedetto XVI, ma anche il fine intellettuale che - ad esempio - nel 1992 è stato accolto nell'Académie des Sciences Morales et Politiques dell'"Institut de France", lui, uomo di Chiesa tedesco. Il dialogo fra i due - che fu tutt'altro che un dialogo fra sordi - mostra da solo quanto feconda possa essere l'attenzione a quanto il pensatore della fede e pastore universale propone oggi alla riflessione e alle scelte di ciascuno.

Joseph Ratzinger intende l'opera del pensiero e dell'impegno storico come semplice e puro servizio alla verità: ecco perché il vero idolo negativo è da lui identificato nel relativismo, in quella posizione cioè che affermando il pluralismo delle verità - più o meno legate all'arbitrio del soggetto - esclude l'idea della verità da servire e da amare, sostituendola con l'unica certezza che tutto sia relativo. A questo forte senso della verità Ratzinger giunge non in un'avventura individuale senza radici profonde, ma attingendo alla comunione della Chiesa di Dio come vero "uomo ecclesiale", nel contesto della grande tradizione del pensiero occidentale: dagli studi sull'amatissimo Agostino e su Bonaventura, alla frequentazione dei maestri dell'eredità di Monaco di Baviera (Sailer, Görres, Bardenhewer, Grabmann e Schmaus, per fare solo qualche nome), al dialogo con la sapienza greca, soprattutto platonica, e con la filosofia moderna e contemporanea, il suo percorso si nutre di uno straordinario patrimonio culturale, che egli attualizza e rielabora al fine di dire in modo nuovo il messaggio antico della rivelazione cristiana per l'inquieta cultura del nostro tempo, segnato da cambiamenti tanto rapidi, quanto profondi.

Si può dire veramente che la sua teologia e la sua filosofia più che aristocratico "amore della sapienza", sono espressione di un'umile e convinta "sapienza dell'amore", da offrire con generosità agli altri, in ascolto e in dialogo con tutti.

Nell'analisi di Ratzinger credere «significa dare il proprio assenso a quel "senso" che non siamo in grado di fabbricarci da noi, ma solo di ricevere come un dono, sicché ci basta accoglierlo e abbandonarci ad esso» (Introduzione al cristianesimo, 41). La fede nasce, insomma, dall'incontro fra il movimento di autotrascendenza dell'uomo e l'offerta assolutamente gratuita e indeducibile della grazia di Dio. Quest'incontro è tutt'altro che scontato: esso va anzi vissuto in tutta la sua dimensione agonica, segnata dall'esperienza della reale alterità dell'Altro: «Il "Credo" cristiano riprende con le sue prime parole il "Credo" d'Israele, accollandosi però al contempo anche la lotta d'Israele, la sua esperienza della fede e la sua battaglia per Dio, che diventano così una dimensione interiore della fede cristiana, la quale non esisterebbe affatto senza tale lotta» (73).

La visione che Ratzinger ha della ragione e della fede, è tutt'altro che ingenua: vi sono patologie della religione e vi sono patologie della ragione, come quelle che hanno portato alla violenza dei totalitarismi e all'uso di terribili armi di distruzione. Questo rilievo, però, non esime la fede dal dovere del dialogo con la ragione e Ratzinger non esita a dichiarare che esiste una «necessaria correlazione tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca purificazione e al mutuo risanamento, e che hanno bisogno l'una dell'altra e devono riconoscersi l'una con l'altra». La fede - lungi dall'essere sacrificio dell'intelligenza - ne è insomma straordinario stimolo e alimento. La ragione che voglia dare ragione di quanto esiste, esercitata fino in fondo, si apre allo stupore davanti al mistero, dove abita l'Altro, che chi crede riconosce come il Dio al tempo stesso sovrano e vicino...

L'unico Dio cui si affida chi crede è, dunque, il mistero del mondo, il senso ultimo della vita e della storia, la ragione inconfutabile per diffidare della miopia di tutto ciò che è penultimo, il fondamento in rapporto al quale si sperimenta «la tensione fra potenza assoluta ed amore assoluto, fra incommensurabile distanza e strettissima vicinanza» (109). È proprio il paradosso della compresenza di queste due caratteristiche che aiuta a comprendere in che senso il Dio della fede sia il Dio vivente: non un morto oggetto, su cui esercitare il gioco dell'intelligenza, ma il Soggetto vivo e operante, cui corrispondere con la consapevolezza e la libertà dell'accettazione di un'alleanza d'amore. Non un Dio concorrente dell'uomo, ma il Dio umano, la cui gloria è l'uomo vivente!

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