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Questo articolo è stato pubblicato il 07 luglio 2011 alle ore 08:43.

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I banchieri tremano, ma gli speculatori possono dormire sonni tranquilli: le vendite allo scoperto non hanno più limiti e prima di capire chi, perché e con quali tecniche sono stati affossati i titoli bancari e finanziari italiani ci vorranno infatti almeno tre giorni lavorativi, cioè il tempo che è concesso al mercato per comunicare alle autorità di vigilanza sulla Borsa tutti i dati sulle negoziazioni effettuate.

Poiché oggi è giovedì, gli operatori avranno tempo fino a lunedì per dichiarare alla Consob come hanno scatenato la pioggia di vendite sui big del credito come Intesa, UniCredit, Mps o Ubi.
Poi serviranno alcuni giorni per le analisi dei tabulati, e se tutto va bene per metà della prossima settimana sapremo se per colpire le nostre banche si è fatto ricorso per l'ennesima volta alle cosiddette «vendite allo scoperto», le naked short selling che in poche mosse e con bassi rischi (i titoli vengono presi in prestito da terzi sulla scommessa di un loro ribasso) sono in grado di far guadagnare tanti milioni agli speculatori e di farne perdere altrettanti ai piccoli azionisti, che di «scoperto» rischiano ormai di avere solo il proprio conto.

La premessa non è ovviamente l'unica risposta al grande interrogativo che (non solo da ieri) tiene con il fiato sospeso le banche italiane e i loro azionisti: perché i nostri istituti vengono colpiti in Borsa più dei loro concorrenti esteri? È mai possibile che ciò che era percepito fino a pochi mesi fa come virtuoso e positivo - cioè il basso profilo di rischio delle nostre banche - sia diventato all'improvviso un elemento di debolezza tale da spingere gli investitori verso altri lidi? Certo, il fatto che le nostre banche guadagnino meno dei concorrenti non gioca a loro favore: non è un segreto che il tasso di ritorno sul capitale proprio (il Roe) sia pari al 3,7% per le prime 8 banche italiane contro la media del 6,7% dei primi 28 concorrenti europei. Ma è anche vero - e questo gli operatori lo sanno - che proprio per compensare questo gap le banche italiane stanno spingendo a più non posso sul mercato parabancario (carte di credito, credito al consumo), dove i margini di guadagno sono decisamente più elevati della tradizionale attività di banca commerciale. Non solo. Non c'è istituto di credito che non stia oggi lavorando sulla riduzione dei costi, che sono ancora effettivamente più alti della media europea.

Insomma, basta tutto questo per spiegare la sfiducia che il mercato borsistico sta manifestando nei confronti del credito italiano? Non sembra. Perché alla luce di quanto sta avvendendo, si ha sempre di più la sensazione che oltre ai noti problemi strutturali il nostro sistema stia pagando delle colpe non solo sue. Si può forse negare che sui titoli delle banche italiane non pesi un rischio-Paese che sta crescendo più velocemente del previsto? Si può forse nascondere il fatto che la modestia delle misure di risanamento dei conti pubblici si stia abbattendo sull'intero sistema economico, industriale e finanziario nazionale? E anche affermare che la fuga dai titoli finanziari italiani sia dovuta solo alla forte esposizione delle banche ai titoli di Stato dei Pigs non basta: al 31 marzo 2011, Intesa Sanpaolo contava un'esposizione verso i rischi sovrani dei Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) di 1,795 miliardi di euro, scesi a 1,596 post rimborso Grecia ad aprile. In particolare, Intesa è oggi esposta per appena 591 milioni con la Grecia, e di soli 60 milioni con il Portogallo: in Germania, l'esposizione delle banche è ben più alta.

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