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Questo articolo è stato pubblicato il 11 luglio 2011 alle ore 08:15.
L'ultima modifica è del 11 luglio 2011 alle ore 08:50.

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L'Italia degli estremi: da un lato, il terzo debito pubblico del mondo (in valore assoluto!), una crescita nulla o zoppicante, le tasche vuote di materie prime, una bassissima natalità e una classe dirigente imbelle; dall'altro lato, un tessuto imprenditoriale vivace, un'alta natalità di imprese (anche grazie agli immigrati), tante punte di eccellenza nell'export e una struttura sociale ancora coesa (lo si è visto nel recente accordo fra imprese e sindacati).

L'ideogramma cinese per l'Italia vuol dire "Paese delle idee". Una definizione lusinghiera. E le "idee" non riguardano solo la pila elettrica o la pila atomica o la radio, il telefono e le materie plastiche (polimeri) - tutte invenzioni per le quali l'Italia mena vanto - o le primazie in campo artistico e letterario. L'Italia è stata per molti anni un laboratorio istituzionale: come fa un Paese stremato dalla guerra a installarsi rapidamente fra le prime potenze industriali del mondo? Come ha potuto un Paese dotato del maggior partito comunista dell'Occidente a convivere con le due anime liberali e stataliste? Come si fa a far vivere fianco a fianco innovazione, collaborazione e concorrenza, piccole dimensioni d'impresa e grande capacità di vincere nell'arena dei mercati? Nel laboratorio italiano i distretti industriali («...è come se i segreti del mestiere volteggiassero nell'aria», scrisse Alfred Marshall) sono un'"invenzione" tutta nostra, che molti hanno cercato di emulare.

Questo bagaglio di idee e di realizzazioni ha sostenuto l'economia italiana per molti decenni del dopoguerra. Ma è poi entrato in crisi, principalmente a causa dell'evento epocale della globalizzazione. L'avvento produttivo dei Paesi low cost ha costretto alla ristrutturazione i Paesi di antica industrializzazione. Ma la ristrutturazione è un processo diverso dall'espansione trainata dai puri "spiriti animali" degli imprenditori. Abbisogna non solo di slancio privato, ma di una collaborazione privato/pubblico per facilitare il passaggio delle risorse da settori in declino a settori in crescita, per organizzare formazione, dare nuove direzioni al sistema educativo, accompagnare all'estero la proiezione del made in Italy verso nuovi sbocchi... E qui iniziarono i problemi, perché il sistema politico italiano non ha la forma mentis necessaria per un'efficace partnership con il settore privato.

Si dice spesso che l'export è un punto di forza dell'economia italiana. Ed è vero che tante storie imprenditoriali, tante nicchie di primazia produttiva testimoniano dell'eccezionalità di un tessuto di imprese adattivo e innovativo. Ma le nicchie non esauriscono tutto l'export. Se guardiamo al complesso delle esportazioni italiane (vedi grafico), vediamo che dall'inizio del secolo a oggi queste sono cresciute nettamente meno rispetto agli altri grandi Paesi dell'euro (Germania, Francia e Spagna). E oltre all'export c'è l'import. L'export italiano non compete solo oltre frontiera; compete anche dentro i nostri confini con l'export delle altre nazioni che vengono a vendere da noi. Possiamo essere contenti che quest'anno il nostro export (al netto dell'energia) sta aumentando a ritmi del 16%, ma l'import (sempre al netto dell'energia) aumenta al 20 per cento.

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