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Questo articolo è stato pubblicato il 17 luglio 2011 alle ore 08:11.
L'ultima modifica è del 17 luglio 2011 alle ore 20:07.

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La speculazione sui titoli del debito pubblico italiano è stata motivata soprattutto dalla sensazione di ingovernabilità del Paese. Ebbene, sulla spinta del presidente della Repubblica il Parlamento, in tempi miracolosamente brevi, ha smentito le consuete eccessive litigiosità e immobilità approvando una manovra finanziaria di 48 miliardi.

L'Italia segue così, nel taglio imposto alla spesa pubblica, altri Paesi in situazione ben più delicata come Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. Lo stesso problema è peraltro piombato anche sul governo di Barack Obama, poiché i conflitti interni al Congresso americano hanno fatto ritenere a rischio persino i bond del Tesoro Usa. Se l'euro è dunque in pericolo, anche il dollaro non gode di buona salute, sicché rigorose misure di austerità possono, in mancanza di adeguati stimoli di incentivazione, bloccare la crescita, ridurre i salari e aumentare la disoccupazione.

L'Irlanda ne è l'infelice esempio e le conseguenze politiche ed economiche delle manovre possono provocare il finale declino del primato mondiale nordamericano e la distruzione di quel che rimane della legittimazione politica dell'Europa. Ciò comporta un ritorno ideologico alla creazione degli Stati sovrani ma deboli e poveri, a tradimento dello stesso impianto organizzato dalla pace di Westfalia del 1648, storicamente peraltro sconfitto dal Trattato di Roma del 1957. È per questo che i "Nove impegni per la crescita" contenuti nel Manifesto del Sole 24 Ore di ieri costituiscono l'assoluto necessario pendant alla politica di austerità.

Risulta sconvolgente tuttavia che ci si attenda ora "il giudizio dei mercati", sorta di medievale ordalia del capitalismo globale, esaltata e legittimata in una convergenza sodale, da gran parte degli economisti quale ultima risorsa ideologica, ormai minacciosa non solo nei confronti delle imprese, ma degli Stati e perciò della stessa tenuta delle democrazie. È ben vero che di questi economisti, come ha ben scritto ieri Paul Krugman sul Sole 24 Ore, «la storia non avrà pietà». Notava esattamente Thomas Hobbes che i mercati hanno natura selvaggia e la loro irrazionalità, ripresa già da John Maynard Keynes e ora, fra gli altri, da Robert Shiller, comporta che la speculazione, la quale muove più denaro delle banche centrali, non riesca ad essere contenuta dagli Stati e che debba cadere necessariamente vittima di manovre di austerità. Anche negli Usa il vero colpevole sembra essere, come pare in Europa e come scrive lo Wall Street Journal di venerdì, la classe politica e in particolare il presidente, che ha perso al riguardo ogni credibilità e autorevolezza.

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