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Questo articolo è stato pubblicato il 27 luglio 2011 alle ore 08:10.
L'ultima modifica è del 27 luglio 2011 alle ore 06:43.

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Forse per la prima volta nella storia moderna, il futuro dell'economia globale si trova nelle mani dei Paesi poveri. Gli Usa e l'Europa si muovono a fatica come giganti feriti, vittime degli eccessi finanziari e della paralisi economica. A causa dei pesanti debiti sembrano condannati ad anni di stagnazione o lenta crescita, a una maggiore disuguaglianza e a possibili tensioni sociali.

Nel frattempo, gran parte del resto del mondo si riempie di speranza ed energia. In Cina, Brasile, India e Turchia i policy maker si preoccupano dell'eccessiva crescita. Per certi versi la Cina è già la più grande economia del mondo, e i Paesi emergenti e quelli in via di sviluppo rappresentano oltre la metà della produzione mondiale. La McKinsey ha battezzato l'Africa, a lungo sinonimo di insuccesso economico, il Paese dei "leoni in movimento".
Come spesso accade, i romanzi riflettono al meglio il nuovo mood. In Storia d'amore vera e supertriste, lo scrittore russo emigrato Gary Shteyngart illustra bene ciò che potrebbe attenderci. Ambientata nel futuro prossimo, la storia si svolge in uno scenario apocalittico che vede gli Stati Uniti sull'orlo della rovina finanziaria e della dittatura monopartitica, coinvolti nell'ennesima e inutile avventura militare all'estero (in Venezuela). I lavori all'interno delle società vengono svolti da immigrati specializzati, le università della Ivy League adottano i nomi delle controparti asiatiche per sopravvivere, l'economia dipende dalla Banca centrale cinese, e i "dollari americani ancorati allo yuan" sostituiscono la comune valuta in quanto asset sicuro.

Ma i Paesi in via di sviluppo possono davvero trainare l'economia mondiale? Parte dell'ottimismo sulle loro prospettive economiche è dettato da un procedimento di estrapolazione. La decade precedente la crisi finanziaria globale è stata per molti versi la migliore mai vissuta dal mondo in via di sviluppo. La crescita si espandeva ben oltre i confini di alcuni Paesi asiatici, e per la prima volta dagli anni 50 la grande maggioranza dei Paesi poveri viveva ciò che gli economisti chiamano convergenza, ossia un restringimento della forbice di reddito con i Paesi ricchi.

Si è trattato, però, di un periodo eccezionale, caratterizzato da un vento economico favorevole. In linea di principio, la bassa crescita post-crisi dei Paesi avanzati non ostacola la performance economica dei Paesi poveri. La crescita dipende alla fine da fattori legati all'offerta (investimenti e acquisizione di nuove tecnologie), e lo stock di tecnologie che possono essere adottate dai Paesi poveri non svanisce a fronte di una debole crescita dei Paesi avanzati. Il potenziale di crescita dei Paesi lenti dipende quindi dalla loro abilità di colmare il gap con la frontiera tecnologica, non dalla rapidità con cui avanza la frontiera stessa.

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