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Questo articolo è stato pubblicato il 10 agosto 2011 alle ore 08:12.
L'ultima modifica è del 10 agosto 2011 alle ore 06:41.

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Khaled Fouad Allam (Ansa)Khaled Fouad Allam (Ansa)

Sono passati molti anni da quando lasciai il mio Paese, un'Algeria inquieta, ferita dal colonialismo e in preda a un delirio identitario. Qualche tempo dopo il Paese sarebbe sprofondato in una delle più orribili guerre fratricide tra laici e fondamentalisti. Ne avevo avuto avvisaglia fra la fine degli anni 70 e l'inizio degli anni 80: nell'università in cui studiavo, a Orano (dove mio padre dirigeva i programmi radiotelevisi), gli scontri fra i fronti opposti erano quotidiani e la situazione si aggravava. Lasciavo un'Algeria in bilico tra volontà di uscire da queste lotte e incapacità di farlo. Fino all'ultimo non sapevo che decisione prendere: perché l'esilio, volontario o no, rimane una ferita indelebile.

Fu il marito di mia cugina, un notaio che abitava nel quartiere Bir Mendres di Algeri, dove era nato e vissuto il filosofo Jacques Derrida, a consigliarmi di andare via, forse perché intuiva quanto sarebbe successo alla metà degli anni 90. Non sapevo quale destinazione scegliere; avevo escluso la Francia, perché il mio rapporto con questo Paese era troppo complesso, un rapporto di amore-odio: amavo la cultura francese ma non volevo tornare nel Paese dei nostri colonizzatori. Cercavo un luogo che non mi facesse pesare troppo la lontananza degli affetti e il senso di provvisorietà, cercavo quella gravità che si nasconde nella leggerezza e che è tipica del Mediterraneo.

Avevo conosciuto anni prima, in Francia, un italiano discendente di una nobile famiglia veneta, che all'epoca era borsista all'Università di Trieste. Un giorno, al telefono, questo amico m'incoraggiò a venire in Italia; sbarcai a Trieste, con una valigia, un vocabolario italiano-francese che mi aveva regalato mia madre, e centoventimila lire. Con quel denaro avrei vissuto quattro mesi. Non avevo alloggio: quest'amico mi ospitò nel suo monolocale. Eravamo in tre ad abitare nell'appartamentino: lui che dormiva nell'unica stanza; un altro suo amico, appena divorziato, dormiva in cucina; a me era rimasta la scelta tra il bagno e il corridoio. Dormii per nove mesi su una branda nel corridoio. La cosa non mi creava disagio: in Algeria, ogni vano poteva svolgere funzioni diverse. Alla domenica la mensa dell'università era chiusa; qualche volta ero invitato a pranzo da una famiglia friulana. Notai che l'ospitalità italiana era simile a quella araba, c'era un senso dell'altro che non avevo trovato nei Paesi del Nord. La cucina dell'appartamento era adibita a camera da letto, dunque non potevo cucinare; ma avevo inventato un sistema per sopravvivere con qualche pasto caldo la domenica, soprattutto d'inverno, quando soffiava la bora: avevo un ferro da stiro arancione, lo rovesciavo e lo usavo come piastra per scaldare un pentolino e cucinarvi un uovo all'occhio o riscaldare una minestra. Ci impiegava più tempo di un fornello, ma il pasto era caldo.

Erano le prime settimane a Trieste, e non conoscevo l'italiano. Un giorno volli inviare delle cartoline a parenti e amici: andai da un tabaccaio in Piazza Unità per comperare i francobolli ma non ricordavo la parola italiana. Spesso gli immigrati che non conoscono le lingue si trovano nella stessa situazione di un neonato che non parla ma cerca di comunicare. Così, per analogia fonetica - ricordavo che la parola finiva all'incirca con "oli" - dissi alla tabaccaia che volevo degli "stromboli". Lei mi guardò esterrefatta. All'epoca Trieste viveva l'esperienza dell'antipsichiatria di Basaglia, e forse credette di avere di fronte un pazzo messo in libertà. Poi le mostrai una cartolina e capì che volevo dei francobolli. Sono diventato cittadino italiano qualche anno più tardi, nella primavera del 1993. Erano gli anni in cui si manifestavano i primi effetti della caduta del Muro di Berlino: la fine della Jugoslavia e la crescita degli etno-nazionalismi; in Italia, la nascita e l'ascesa della Lega Nord, che metteva in discussione l'unità nazionale. Qualcosa era cambiato; l'inquietudine che avevo lasciato in Algeria sembrava espandersi in tutto il mondo. Non capivo tutto questo, perché per me l'Italia rappresentava ben altro che un passaporto; era un sentimento, un modo di essere, e avevo sempre pensato che l'italianità fosse nata ben prima della costruzione storica della nazione italiana: con l'umanesimo, la pittura del Rinascimento, con geni come Caravaggio che dal Nord si era spostato a Napoli, con la musica di Vivaldi, Albinoni, Frescobaldi, Scarlatti che superava ogni confine ed era l'espressione di un'identità profonda, una vitale accezione della cultura europea. Ogni volta che andavo a Venezia mi fermavo dinanzi alla Basilica di San Marco, percependo la specificità italiana di essere se stessa e allo stesso tempo di esprimere un linguaggio universale. L'Italia per me era questo, dal Veneto alla Sicilia. Il senso d'identità si scontrava con comportamenti che andavano in direzione opposta: gli italiani erano divisi, sempre in competizione - il Nord meglio del Sud, l'Est più bravo dell'Ovest, e così via. Sono comportamenti negativi che non giovano al sentimento nazionale; ma dentro di loro gli italiani sanno bene che la loro identità è quella italiana. Molti anni più tardi ho capito che questo comportamento rappresenta uno degli elementi dell'italianità; è un sentimento che sfocia nell'aggressività e che nasce da una società segmentaria, fatta di gruppi di appartenenza e non da individui, e ha il suo paradigma nell'opposizione tra Firenze e Siena. Il Palio di Siena rappresenta questa lotta fratricida tra quartieri: questo fenomeno ha frenato la realizzazione di una società coesa.

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