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Questo articolo è stato pubblicato il 05 novembre 2011 alle ore 08:16.
Non riusciamo a venire a capo del nostro problema di fondo: mantenere la rotta del rigore e prendere il vento giusto della crescita economica. Chi è alla guida pensa che da questo guaio pericoloso ne usciremo, prima o poi, grazie alle "scorte" di cui disponiamo; ma queste si riducono giorno dopo giorno ed è aleatorio sperare che qualcuno (la Ue? Il Fmi?) ci venga in soccorso tirandoci fuori da tutti i nostri problemi con cui ci rifiutiamo ostinatamente di fare i conti, come, ad esempio, il Mezzogiorno, un storico punto cieco della nostra crescita nazionale.
Nella ormai famosa lettera inviata all'Ue, il governo cita un piano Eurosud, ma, per ora, si tratta solo dell'annuncio di una revisione (entro 4 mesi) dei programmi cofinanziati dai fondi strutturali 2007-13, a cui si è aggiunta la notizia di 8 miliardi di euro "liberati" dalla riduzione del cofinanziamento nazionale (dal 50 al 25%,) che però abbassa l'investimento complessivo. Resta quindi alto il timore di una nuova promessa tradita. Già un anno fa, il Consiglio dei Ministri aveva varato un "Piano nazionale per il Sud", ma senza risorse aggiuntive. Anzi, il Cipe aveva ridotto quelle del Fas, dirottate verso altri obiettivi, per lo più di spesa corrente. Nel frattempo, il Rapporto Svimez 2011 ha fotografato un arretramento ulteriore del Mezzogiorno a seguito della crisi, superiore, nel triennio 2008-10, a quello del Centro-Nord. Ha così smentito la convinzione della "prima ora" che, di fronte a una crisi esogena, l'economia meridionale, debole sui mercati esteri, ne avrebbe tratto un vantaggio relativo. Così non è stato. Nel 2010, il divario in termini di Pil procapite si è ampliato (-0,3%), la crescita industriale meridionale è stata meno della metà rispetto al resto del Paese (il 2,3% contro il 5,3%), la variazione degli investimenti fissi lordi è stata dello 0,9 % contro il 3,1 per cento.
Il risultato è che un giovane meridionale su tre non lavora e la disoccupazione al Sud insegue solo quella vertiginosa spagnola. Inoltre, l'emigrazione ha accelerato(oltre centomila l'anno), così che il leggendario divario territoriale tra la Lombardia e le regioni più povere del Sud si concretizza con l'emigrazione verso di essa di un meridionale su quattro: "in fuga" anche i laureati, che, a loro volta, risultano in diminuzione nel Mezzogiorno. Per non parlare delle persone a rischio di povertà, che nel Nord-Est sono il 14%, mentre in Sicilia e in Campania sono ben oltre il 40 per cento. Si tratta di una fotografia desolante, aggravata dalla visione nordista negativa e scettica sulla possibilità che il nostro meridione possa farcela a compiere quel salto di qualità che gli consenta di non essere più al traino di una corda tesa, che rischia di spezzarsi.
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