Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 24 novembre 2011 alle ore 08:15.
L'ultima modifica è del 24 novembre 2011 alle ore 09:09.

My24

Alzare l'età pensionabile in modo da liberare risorse per un sistema generalizzato di protezione sul lavoro dovrebbe essere un altro tassello di una politica economica proiettata verso il futuro. E che dire dell'assistenza alle imprese nell'internazionalizzazione: in un mondo dove la competizione si vince sulla capacità di produrre e vendere all'estero, questa dovrebbe essere la priorità delle priorità, e invece in Italia siamo riusciti nel capolavoro di smantellare l'Ice, l'Istituto per il commercio estero, senza prevedere alternative.

Nonostante questo, c'è ancora una parte del sistema produttivo italiano che sa difendersi sul mercato e resistere. È una parte minoritaria, ma è qui che possiamo vedere le tracce di quel Sud, di quel mare che stiamo cercando.
L'ultimo rapporto dell'Istat dice che la crisi ha colpito in modo preminente i comparti industriali, soprattutto quello manifatturiero tradizionale, il Made in Italy. Il saldo tra imprese nate e cessate è risultato negativo per 23mila unità nel 2008 e per 40mila nel 2009. Soprattutto, le imprese non nascono e non crescono.

C'è però un numero significativo, per quanto limitato, di medi gruppi in grado di essere leader mondiali nei settori specifici in cui operano: hanno saputo ristrutturarsi per tempo e innovare su prodotti e marchi. La Banca d'Italia stima che questi gruppi siano circa 5mila sul totale delle 65mila aziende con più di venti addetti. Ancora pochi, ma tali da dare lavoro a circa un milione di addetti e da costituire un modello di impresa che guarda all'export.
È a questi esempi che dobbiamo guardare se vogliamo immaginare un futuro per il manifatturiero. Ciò significa adottare politiche per la crescita dimensionale delle imprese, favorire la creazione di reti, accompagnare le aziende sui mercati di tutto il mondo.

C'è una responsabilità che deve assumersi la politica, ma cui non può sottrarsi il settore privato. Continuare a frammentare le imprese per vantaggi fiscali, respingere l'apporto di risorse manageriali per mantenere in famiglia il controllo dell'azienda, chiudersi in settori domestici protetti, è un modo per sopravvivere, ma alla lunga significa mettersi su una strada senza futuro.

La globalizzazione, con tutte le difficoltà che ci ha portato, ha messo al centro del consumo mondiale i brand di qualità. Per un'analisi di Morgan Stanley l'attitudine dei cinesi verso i marchi di qualità cresce in modo esponenziale. Il Made in Italy è brand di successo.
Perciò credo che l'Italia, prima dell'Europa, abbia una grande opportunità che riguarda il manifatturiero ma che va oltre il solo manifatturiero: è la forza delle sue produzioni e dei suoi servizi di alta qualità, il suo estro per estetica e design, la sua capacità di arricchire i prodotti di valore simbolico, il potenziale non solo turistico del suo territorio, la sua cultura, il suo ambiente. Così, le grandi trasformazioni del mondo possono diventare un'enorme chance per il nostro Paese.

Per cogliere l'occasione dobbiamo scommettere sull'innovazione, senza attardarci nel passato di produzioni ad alta intensità di lavoro su cui non saremo mai più competitivi. L'imprenditore – riscopriamo questo assioma essenziale – è colui che innova. Che rifiuta la logica della rendita e si mette su strade nuove. Ce lo ha insegnato Schumpeter: "L'imprenditore è colui che mette in atto l'azione creatrice, che aggiunge qualcosa alla realtà, che pone i dati – cito dalla Teoria dello sviluppo economico - in nuovi contesti come fa il grande artista creatore con gli elementi artistici che ha a disposizione".

Qualche settimana fa ho inaugurato alla Bocconi una cattedra intitolata a mio padre Rodolfo. È un luogo dove si insegnerà a fare impresa. Ed è questo che ho detto ai giovani: se vogliamo sfuggire al declino il primo passo è quello di riscoprire il gusto dell'imprenditore che innova.
Alimentare una nuova classe di imprenditori in Italia significa contribuire al rilancio economico.
Di mio padre ricordo, in quegli anni difficili del Dopoguerra, di due Dopoguerra, la ferrea volontà di costruire e ricostruire, di fare impresa, di creare ricchezza, di migliorare le condizioni di vita proprie e della comunità.

Siamo di nuovo come in quei Dopoguerra. La forza creatrice dei nuovi imprenditori dei Paesi emergenti ha dimostrato, in questo primo decennio del nuovo secolo, che le previsioni dell'ultimo Schumpeter di una crisi irreversibile delle risorse imprenditoriali erano errate. La spinta dell'impresa continua a produrre sviluppo in giro per il mondo, anche se la civiltà borghese dei tempi dei Buddenbrook è scomparsa da un bel po'. È tempo che quella spinta torni ad essere vitale anche da noi.

Questo articolo è uno stralcio della Lectio magistralis che Carlo De Benedetti ha tenuto ieri all'Università di Torino al Premio Chiave a stella 2011

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Shopping24

Dai nostri archivi