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Questo articolo è stato pubblicato il 01 dicembre 2011 alle ore 08:31.

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Mancano sette giorni al vertice europeo di Bruxelles. All'appuntamento con il destino dell'euro, come ormai lo considerano quasi tutti. Oggi e domani Nicolas Sarkozy e Angela Merkel faranno conoscere la rispettiva dottrina europea. Mario Monti invece non farà discorsi per l'Europa ma fatti. «Parlerò con le misure che adotteremo lunedì» ha detto ieri alla fine della riunione dei ministri Ecofin.

Fatti, decisioni serie e compiute. Basta con i soliti passi a metà regolarmente sanzionati dal giudizio implacabile dei mercati. I 17 dell'euro dovrebbero averlo capito da tempo. Invece no.
«Sapete quale considero oggi la peggior minaccia alla sicurezza e alla prosperità della Polonia? Non il terrorismo né i talebani, certo non i carri armati tedeschi e neanche i missili russi che Medvedev ha appena minacciato di dispiegare ai confini europei. La più grande minaccia sarebbe il collasso dell'euro» ha affermato in un accorato discorso a Berlino il ministro degli Esteri Radek Sikorski.

«Per la sua e nostra salvezza - ha aggiunto Sikorski - chiedo alla Germania di aiutarci a sopravvivere e prosperare. Nessun altro può farlo. Quindi io sarò probabilmente il primo ministro degli Esteri polacco della storia a dirlo ma lo dico: temo la potenza tedesca meno di quanto comincio a temere la sua inerzia». Ci voleva un polacco, le cicatrici indelebili di una tragica storia con il vicino tedesco, la grande speranza di un futuro migliore dopo il lungo gelo comunista, lo sguardo allarmato di un europeo, che sta fuori dall'euro ma vorrebbe entrarci, per provare a dare una scrollata a chi l'euro ce l'ha ma, come spesso accade, non riesce più a vederne i grandi benefici. E quindi nemmeno le devastazioni che accompagnerebbero la sua caduta. Per tutti, nessuno escluso.

Con asset esteri pari a 6mila miliardi di euro, per lo più concentrati nei partner euro, la Germania sarebbe travolta dalla frammentazione della moneta unica, avverte Jean Pisani-Ferry, direttore del think tank Bruegel. Per questo «è nel suo assoluto interesse assicurare una durevole stabilità in Europa». A scoraggiare qualsiasi sogno secessionista, sia dei Paesi più vulnerabili tentati di fuggire da rigore draconiano e riforme dolorose dettate da Bruxelles e Berlino, sia dei Paesi più forti (il clan della tripla A, magari convinti di poter lasciare senza danni la barca che affonda riaggregandosi in un piccolo euro o in un grande marco), ci pensa però uno studio appena pubblicato della BertelsmannStiftung.

I costi di un divorzio sarebbero paurosi per chiunque. Per i Paesi più deboli e indebitati come Grecia, Portogallo, Spagna e Italia, un ritorno alle monete nazionali comporterebbe una svalutazione ipotizzata fino al 60% rispetto al blocco euro. Con crollo degli investimenti transfrontalieri, ripristino dei controlli sui movimenti di capitale, forte perdita di fiducia all'interno del sistema finanziario, enormi ostacoli tecnici e legali. Non solo. Economia in deflazione, caduta delle entrate fiscali e impennata del deficit pubblico. Data la maggiore difficoltà a finanziarsi sul mercato dei capitali, due scelte possibili: varare pesante austerità o stampare moneta. Inflazione, erosione del risparmio.

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