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Questo articolo è stato pubblicato il 24 dicembre 2011 alle ore 09:38.
L'ultima modifica è del 24 dicembre 2011 alle ore 08:13.
Il volano è innescato dal meccanismo statutario della Bers, che prevede di destinare i finanziamenti prevalentemente ai privati («Come minimo al 70%, ma nei fatti siamo all'85%»), subordinando l'assegnazione a una minuziosa procedura di valutazione preventiva sulla bontà prospettica dei progetti, che così acquisisco automaticamente un buon certificato di "bancabilità". Risultato: il finanziamento Bers si accompagna a un'erogazione dell'investitore solitamente di pari entità, a cui si accompagna un'altra quota analoga di intervento delle banche private. «E così i nostri investimenti generano progetti di valore triplo», rimarca Puliti.
Guai a pensare che questi denari, in fondo, non siano di nostro diretto interesse. Vero è che la Bers non elargisce i suoi finanziamenti infrastrutturali alle economie mature, e dunque nei Paesi della vecchia Europa (lo fanno altri, in testa la Bei, che peraltro è azionista in Bers). Ma a ben guardare con l'integrazione crescente delle economie continentali e dei progetti industriali e come se lo facesse, per indiretta persona. Perché finanziando i partner dei nostri progetti, ne orienta lo sviluppo e le priorità.
Gli esempi? Ecco il cavo elettrico sottomarino tra Italia e Montenegro, che si va concretizzando proprio in questi giorni: Terna, il gestore italiano delle grandi dorsali elettriche, fa la sua parte e ben si finanzia autonomamente. La Bers interviene sul versante montenegrino, sostenendo non poco l'operazione. Ecco lo sbarco in Russia dell'italianissima Enel. Bers ha il 2,5% di OGK5, la compagnia elettrica ora controllata al 60% dal nostro ex monopolista dell'elettricità. «Ottimo investimento, di cui certo non ci pentiamo».
Ma allora, cosa piace o non piace alla Bers di ciò che sta accadendo sul grande scacchiere energetico mediterraneo? Piace tutto, in teoria. Perché i progetti non mancano. I nuovi gasdotti, i rigassificatori (che significa impianti di liquefazione di metano nei Paesi fornitori o negli hub di scambio), le interconnessioni elettriche transfrontaliere decisive per integrare i mercati e quindi le economie. Quel che non piace è la lentezza di tutto ciò, con relativa dispersione di risorse programmatiche.
Prendiamo il grandi gasdotti tra l'Italia e l'Oriente. Nabucco contro South Stream? Dietro ci sono egemonie politiche e industriali, e questo è comprensibile. Ma c'è anche il dibattito tra chi, in Italia, ripropone due tesi contrapposte: abbiamo gas in abbondanza e anche se l'economia riprenderà in pieno (è la vecchia tesi dell'Eni, ad esempio) potremmo ritrovarci con una bolla, trainata dalle troppe infrastrutture.
No, non è così. Ben venga l'apparente bolla. E non solo perché tutti i sistemi energetici del Mediterraneo «hanno un bisogno colossale di infrastrutture per sostenere la crescita». In gioco c'è, appunto, l'hub. Il nostro o quello costruito da qualcun altro a noi vicino. Largo all'eventualità di una benedetta abbondanza di materia prima, esortava tra gli altri l'ex presidente della nostra Authority per l'energia, Alessandro Ortis. Largo - incalza Puliti - a tutte le interconnessioni verso la vecchia e non meno famelica Europa. I gasdotti da est, rigassificatori in terra nazionale e nuovo gasdotto dall'Algeria attraverso la Sardegna, il Galsi che non a caso è il primo grande tubo metanifero a cui non partecipa l'Eni ed è invece guidato dai concorrenti come Edison e Enel.
Se sapremo attrarre l'affare dell'hub, con le regole normative e con la semplificazione delle nostre imbarazzanti lungaggini burocratico-amministrative, avremo un trampolino privilegiato per giocarci la sfida (in messaggio, più che esplicito, e per il neonato governo Monti). Altrimenti la soluzione e le opportunità prenderanno altre strade, concretizzando qualche fosco segnale degli ultimi giorni: perde quota l'ipotesi di uno sbocco del South Stream nel nostro Meridione. «Forse ci lambirà a Nord», mormorano i dirigenti Eni. Forse arriverà più su e l'Italia non sarà nemmeno toccata, ipotizza qualche analista. «Calma, il South Stream è ben lungi dal prendere forma», tranquillizza, per ora, Riccardo Puliti.
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