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Questo articolo è stato pubblicato il 27 dicembre 2011 alle ore 08:46.

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Figuriamoci se non la capisco la signora Merkel, con tutti i grattacapi che le danno i contribuenti tedeschi, così restii ad accettare meccanismi di solidarietà a beneficio degli europei del sud. Sono ben consapevole delle ragioni di tanta diffidenza e me le ha ricordate giorni fa a Parigi un collega tedesco che mi aveva ascoltato in un convegno. «Mi è molto piaciuto – mi ha detto – Lei è italiano e ha usato la parola disciplina».

È chiaro che nell'immaginario tedesco noi italiani e la disciplina siamo ai poli opposti e questo basta a mettere in guardia la Germania nei nostri confronti.
Si aggiunga la sciagurata vicenda che ha attraversato nei giorni scorsi il partito liberale, alleato della signora Merkel nella coalizione di governo. L'ala antieuropea di quel partito aveva promosso un referendum interno ad esso contro la ratifica dell'accordo sul Meccanismo di Stabilità Europeo, quello che dovrebbe sostituire in via permanente l'attuale fondo salva-Stati. Ci si aspettava che fosse una piccola azione di disturbo e invece il referendum ha mancato il quorum per un soffio (o forse – dice qualcuno – si è fatto in modo che lo mancasse). Certo è che ora la signora Merkel deve essere ancora più rigida per placare un alleato di cui ha bisogno perché il suo governo sopravviva.

Ho dunque il massimo di comprensione per la Cancelliera e invito chi oggi ha con lei i rapporti che contano ad averne non meno. Detto questo, troverei non solo difficile, ma sbagliato e pericoloso approvare così com'è l'accordo intergovernativo deliberato dal Consiglio europeo il 9 dicembre scorso su impulso preminente della Germania, allo scopo di portare nelle nostre Costituzioni e nei nostri ordinamenti nazionali il pareggio di bilancio e i principi della più severa austerità. Intendiamoci, se serve a convincere una buona volta i tedeschi che la disciplina la prendiamo tutti sul serio, è bene comunque arrivare ad approvarlo. Il male che corrode l'Europa è infatti l'assenza di fiducia reciproca e tutto quello che porta a ripristinarla è benvenuto e propedeutico a passi ulteriori.

È bene tuttavia aver chiaro che ai mercati un accordo del genere dice poco o nulla ai fini delle prospettive di miglioramento che essi vanno cercando. Che l'Italia e gli altri paesi più indebitati abbiano adottato o stiano adottando severissime misure di austerità lo sanno benissimo e sanno anche che su questo terreno sarebbe addirittura controproducente chiedere loro di più. Se uno vuole averne la prova e capire come mai lo spread italiano viaggia ancora sui 500 punti nonostante il fior di manovra che il governo Monti ha fatto passare, vada a leggersi gli "outlooks" per il 2012 delle grandi banche. L'Italia è in testa fra i paesi critici, ma non lo è per mancanza di disciplina. Lo è per mancanza di crescita.

Ebbene l'accordo del 9 dicembre alla crescita non dedica nulla più che un generico auspicio, prima nelle premesse, poi in un articolo, l'articolo 12, che contiene vaghe promesse di coordinamento e di convergenza economica. Per il resto, si occupa esclusivamente di austerità, pareggio di bilancio e sanzioni automatiche per chi non riduce i suoi disavanzi eccessivi, rispondendo al bisogno tedesco di vedere scritte e ribadite queste regole. E il problema è che non solo si è pensato anche troppo a questo bisogno, ma che troppo poco si è invece pensato a tradurlo in un testo che sia fonte di effetti utili e non di danni.

Intanto si è preteso, con un accordo intergovernativo come tale estraneo alle fonti del diritto previste dal Trattato, di modificare la disciplina dei disavanzi eccessivi adottata con regolamento comunitario esattamente un mese prima, l'8 novembre 2011. Ci si chiede quale sia il senso di queste modifiche e come si possa pretendere che a gestirle sia la Commissione, le cui funzioni sono regolabili dalle fonti del diritto comunitario, non dagli accordi intergovernativi. Per non parlare della giurisdizione che si vorrebbe attribuire alla Corte di Giustizia Europea sulle regole di pareggio del bilancio e sui meccanismi di sanzione automatica in caso di deviazione, che gli Stati membri dovrebbero mettere nelle loro costituzioni e nelle loro leggi.

Si pretende di fondarla sull'articolo 273 del Trattato sul funzionamento dell'Unione, che però la prevede soltanto per materie oggetto dello stesso Trattato, non di altri accordi.

L'Italia poi ha anche altre inquietudini, perché il regolamento comunitario dell'8 novembre accompagna l'obbligo di ridurre di 1/20 l'anno la quota di debito eccedente il 60% del Pil con una serie di condizioni, che ne attenuano la rigidità. Il nuovo accordo non ne fa invece menzione. È una dimenticanza o lo si è fatto di proposito? Una risposta non c'è, ma ci sono perplessità non solo italiane su novità che appaiono confuse, di dubbio fondamento e tutte orientate a irrigidire gli obblighi di manovre correttive, anche quando queste accentuino una recessione in atto. Già il Presidente romeno Basescu (ma non è il solo) ha sollevato dubbi sulla aspettativa che il suo Parlamento condivida un impianto del genere, mentre a nome dei socialisti francesi, che hanno la maggioranza al Senato, François Hollande ha escluso che in tale sede l'accordo abbia via libera.

È bene che sia così, perché l'Italia, visto come ci guardano i tedeschi, avrebbe serie difficoltà a far valere da sola le buone ragioni sue e dell'intera eurozona. Va detto inoltre che i rappresentanti del Parlamento europeo, fortunatamente coinvolti dal Consiglio nella messa a punto dell'accordo, hanno predisposto emendamenti che evitano di inseguire il testo nei suoi passaggi meno chiari e, con grande semplicità, li riconducono al Patto di Stabilità e di Crescita così come risulta dal diritto europeo. Ciò evita confusione e incertezze e risponde, a ben guardare, alle stesse intenzioni della Cancelliera Merkel, che con l'accordo non voleva modificare le regole sulla governance economica comune appena adottate, ma solo dare loro più forza giuridica.

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