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Questo articolo è stato pubblicato il 10 gennaio 2012 alle ore 08:06.

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È una buona notizia che ieri sia stato annunciato l'anticipo a fine gennaio del vertice che deve rafforzare la disciplina fiscale dell'eurozona. Bene anche che Angela Merkel e Nicolas Sarkozy abbiano condito la retorica sul rigore con un po' di crescita e che sempre ieri abbiano citato l'esigenza di rendere efficienti i fondi salva-Stati. Domani infine Mario Monti renderà consapevole la cancelliera tedesca della portata delle riforme fiscale e previdenziale realizzate in Italia.

Costruita come un edificio, mattone dopo mattone, la soluzione fiscale alla crisi dell'area euro sta raggiungendo un suo equilibrio. Purtroppo però è un edificio in cui nessuno ancora vuole tornare a vivere.

La sfiducia che si è accumulata nell'area euro negli ultimi anni l'ha resa una casa stregata. Ci vogliono esorcisti coraggiosi per riportare la fiducia. La stessa Bce dimostra che il suo programma di acquisto dei titoli pubblici non funziona così come è fatto, con voluta timidezza. I risparmi non circolano e ieri gli investitori hanno preferito acquistare titoli tedeschi a rendimento negativo, con la certezza cioè di perdere soldi. Evidentemente, come dicono gli investitori, la certezza che il denaro ti sia reso è più importante del rendimento del denaro.

È un segno del fatto che c'è ancora scarsa fiducia nella tenuta dell'eurozona. Il sistema bancario europeo, per esempio, si sta completamente dividendo per comparti nazionali. Sapendo che a salvare le banche saranno ancora una volta gli Stati nazionali - che hanno rifiutato anche all'ultimo Ecofin ogni forma di garanzia comune - inevitabilmente le banche si trincerano dentro i loro confini. Quelle che non possono farlo, perché sono già multinazionali, sono più in difficoltà e in alcuni casi tornano a suddividere le loro attività Paese per Paese. Inevitabilmente l'intero sistema finanziario europeo, centrato su banche e titoli pubblici, finisce per rompersi per linee nazionali. C'è chi teorizza questo "rimpatrio" come una soluzione alla crisi. In Italia, per esempio, i titoli pubblici in mano a investitori stranieri - quelli che più facilmente "scappano" e rendono instabile il debito di un Paese - sono scesi nel corso del 2011 dal 53% al 38% circa. Si stima che di questi un po' più di un terzo siano in "mani stabili", banche centrali, Stati, fondi sovrani e così via. Quel che resta non è moltissimo, dunque, e la liquidità della Bce può aiutare a rimpatriarlo. Una volta poi raggiunto il pareggio di bilancio, il debito italiano sarebbe infine stabile. Se è questa la strategia dilatoria europea è meglio ripensarci subito.

Attraverso il rimpatrio dei capitali è come se i Paesi dell'area euro stessero trasformandosi in sistemi economici chiusi, come negli anni Settanta. Con la differenza, tuttavia, di avere una moneta e una politica monetaria comuni. La prima diventerebbe per ogni Paese una specie di moneta estera, come nei Paesi emergenti. La seconda sarebbe quasi sempre non ottimale per il singolo Paese, perché stabilita per l'eurozona nel suo complesso.

Quello che è in atto è un serio corto circuito della fiducia, che Merkel e Sarkozy dovrebbero affrontare con minore ambiguità. Senza mutui impegni su debiti e banche non c'è circolazione di risparmio nell'area euro. In tali condizioni la moneta unica avrebbe poco senso. Ogni economia dipenderebbe dal proprio saldo di risparmio interno e avrebbe aggiustamenti economici interamente a carico dei propri prezzi e salari: la Germania avrebbe inflazione e la Spagna deflazione. Alla fine raggiungerebbero l'equilibrio di bilancia dei pagamenti nel modo più doloroso possibile.

Il rallentamento delle economie, ovunque nell'eurozona, probabilmente è dovuto proprio ai sintomi di questo fenomeno di chiusura delle economie.

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