Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 15 gennaio 2012 alle ore 13:15.
L'ultima modifica è del 15 gennaio 2012 alle ore 14:13.

My24

E se l'Italia si mettesse a crescere come un Paese emergente? Perché mai la nostra economia non potrebbe correre? Anche le più ottimistiche stime, prima dell'esplosione estiva dei debiti sovrani, prevedevano al massimo un misero 1% (Fmi, giugno 2011), il passo di un serpente non proprio di un leopardo. Certo, essendo ricchi, il nostro potenziale è inferiore a quello di Brasile, Cina o India. Ma perché non potremmo crescere almeno come le economie avanzate più dinamiche, avvicinare il 3% della Germania o addirittura il 4% americano dei tempi d'oro di fine anni Novanta?

La domanda va al cuore del patto sociale implicito in cui si radica l'azione del Governo Monti: rigore e riforme in cambio di stabilità finanziaria e crescita. Se l'aumento del reddito è il dividendo del patto sociale, è utile capire quanto sarà sostanzioso. L'esecutivo ha stimato al 2% all'anno l'effetto delle liberalizzazioni e delle semplificazioni. Se si tiene conto delle implicazioni dinamiche l'impatto dell'azione del Governo potrebbe essere ben maggiore.

Il convegno di ottobre della Banca d'Italia sui 150 di storia economica del Paese ha permesso di identificare alcuni passaggi chiave del nostro sviluppo. Dal dopoguerra fino al 1992 l'Italia ha avuto un percorso di convergenza che ha portato il suo livello di reddito pro capite al 76% degli Stati Uniti. Da quel momento la nostra crescita si è fermata, abbiamo iniziato a divergere dalla frontiera, ora siamo al 64% degli Stati Uniti, lo stesso livello relativo del 1973.

La conseguenza buona di questa nefasta frenata è che abbiamo riguadagnato un vantaggio da arretratezza, ossia, la disponibilità di abbondanti risorse inutilizzate o utilizzate male, che hanno un potenziale produttivo. Le nostre debolezze sono forze inespresse che possono essere liberate dall'eliminazione dei vincoli sul sistema economico. Ne cito solo tre a titolo di esempio, ma ce ne sono altre.

La prima risorsa è la forza lavoro non utilizzata. Il tasso di occupazione è in Italia ridicolmente basso (41%), soprattutto per donne e giovani. Se solo la proporzione della forza lavoro occupata fosse pari a quella francese ciò significherebbe un milione di persone in più nel sistema produttivo. Anche i giovani più qualificati hanno difficoltà a trovare lavoro. Oltre l'11% dei ragazzi tra i 15 e i 24 anni laureati né lavora né studia.

Seconda risorsa, l'immenso risparmio privato accumulato nel Paese che raramente arriva agli impieghi più produttivi. La controparte di questa mancata connessione tra famiglie e produzione è il basso grado di capitalizzazione delle imprese, la scarsa diffusione di strumenti finanziari innovativi per l'industria e le poche imprese quotate.

Terza risorsa, il sistema delle aziende frenato da un contesto competitivo sfavorevole. Nonostante tutti i più accreditati indicatori di competitività pongano l'Italia molto indietro nelle classifiche, abbiamo accumulato un surplus commerciale al netto dell'energia di 26 miliardi nei primi dieci mesi del 2011. Di quanto aumenterebbe il surplus se il competitive environment fosse pari alla Germania?

Per sfruttare il nostro vantaggio da arretratezza necessitiamo dunque di riforme incisive che permettano alle riserve di arrivare ai nodi della produzione. La mancanza di crescita infatti non è un problema di carenza di domanda, ma di produttività del lavoro - oggi allo stesso livello del 1995 - ossia di cattivo utilizzo delle risorse disponibili. Meno tasse o più spesa per la ricerca ci farebbero crescere (dimentichiamo per un attimo i conti pubblici), ma solo fino a un certo punto, se non si cambia il meccanismo di incentivi - regole, burocrazia, barriere competitive - con cui le risorse vengono impiegate. Un imprenditore deve preferire investire nel proprio lavoro che lasciare i soldi in banca e impiegare un giovane con un rapporto di lungo periodo invece di tenerlo a bagnomaria nel precariato.

La divergenza della nostra economia dalla frontiera della metà degli anni Novanta è in buona parte dovuta a uno Stato che non è mai riuscito a definire regole e istituzioni compatibili con l'economia di mercato. Regole che favorissero le trasformazioni strutturali inevitabili in tempi di innovazioni, nuovi mercati, nuovi concorrenti e che sapessero anche tutelare in modo adeguato i perdenti.

Noi oggi possiamo crescere, correre invece di strisciare perché il potenziale del Paese rimasto schiacciato da questa inerzia di governo è immenso. Certo abbiamo una società anziana, il debito pubblico, i nodi del Mezzogiorno, un livello di istruzione e spese in ricerca bassi, rendite di posizione di ogni genere da scardinare e un malessere diffuso sia reale che psicologico. Eppure, il salto dei colli di bottiglia auspicato da Monti potrebbe fare uscire vino di qualità e in quantità inattese. Per molto tempo sono stato contrario agli extra ottimisti che predicavano le virtù del Paese senza volerne riconoscere i nodi strutturali. Il problema è che le virtù ci sono, ma non servono a nulla se i nodi non vengono sciolti. Se il Governo farà quel che promette, vorrei finalmente iscrivermi anch'io al partito degli ottimisti.

barba@unimi.it

Commenta la notizia

Shopping24

Dai nostri archivi