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Questo articolo è stato pubblicato il 15 gennaio 2012 alle ore 13:23.
L'ultima modifica è del 15 gennaio 2012 alle ore 13:50.

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Le agenzie di rating hanno tenuto ampiamente bordone alla peggiore storia di avventurismo finanziario di tutti i tempi, l'ubriacatura americana (e non solo) con la finanza immobiliare e i derivati, e cercano adesso di risalire in cattedra. Ma rischiano alla fine di procurare solo danni.

Rischiano di non contribuire alla chiarezza e alla corretta valutazione dei rischi. Di fare un lavoro meramente contabile, come quando cinque anni fa davano la tripla A al 60 percento delle impresentabili emissioni strutturate e solo all'1% delle obbligazioni corporate, a tutto vantaggio dei loro principali committenti di Wall Street e della City. E confermano alla fine quanto diceva mesi fa l'ex capo economista proprio di Standard&Poor's, David Wyss, convinto che le agenzie «non sanno quanto a conti pubblici molto di più del normale lettore di giornali».

La sventagliata di tagli ai rating di nove paesi dell'eurozona, Francia, Austria, Italia, Spagna, Portogallo più cinque di minori dimensioni, annunciata venerdì da S&P, è stata accolta da banchieri centrali e uomini politici dell'area euro come «un attacco all'Europa». E se è vero che le teorie cospiratorie non portano lontano, è anche vero che assegnare all'Italia un rating analogo a quello della disastrata Irlanda dell'iperfinanza creativa e immobiliare o togliere la tripla A alla Francia lasciando il top rating alla ben più compromessa Gran Bretagna, risulta difficile da capire.

S&P, con questa sortita così ampia, fa finta di non sapere che non esiste un'area euro instabile e un'area non euro – dollaro e sterlina – che invece è uscita o sta uscendo dal guado. Sono tutti con l'acqua alla gola, purtroppo. Sia per quanto riguarda i bilanci pubblici sia per quanto riguarda i sistemi finanziari, che sono ahimé ormai un tutt'uno su entrambe le sponde dell'Atlantico con i conti dello Stato. E ovunque tenuti in piedi dalla generosa liquidità delle banche centrali, che per ora hanno nazionalizzato di fatto il sistema.

Sui conti pubblici S&P è la stessa che ad agosto toglieva la tripla A agli Stati Uniti, sollevando durissime reazioni a Washington, e non spiegando bene però la realtà dei conti americani. La spiegazione politica era chiara. Il paese ha le risorse per far fronte alla situazione, e resta nel lungo periodo più che affidabile, se farà la scelte giuste. Ma lo stallo su quali rimedi adottare a breve e l'ostilità diffusa all'aumento delle tasse, per cui c'è ampio spazio, sta portando i conti su una rotta di collisione. Neppure ad agosto però S&P faceva chiarezza contabile, perché i conti pubblici americani sono assai peggio di quanto i dati ufficiali indichino. Il debito non è al 100% del Pil, ma assai più ampio, almeno al 140-150, conteggiando come giusto anche il debito pubblico di Stati ed enti locali e soprattutto quello gigantesco del sistema di finanza immobiliare pubblica, le famigerate Fannie e Freddie e costellazioni minori, che Washington pienamente garantisce.

Ancora in questi giorni la Sec, la Consob americana, ha chiesto alle banche di specificare l'esposizione all'eurozona, paese per paese, e questo dopo ripetuti altrettanto pubblici inviti nei mesi scorsi al sistema finanziario ad alleggerire l'esposizione verso l'area euro, cosa che ha causato ad esempio all'Italia alcuni problemi. Va benissimo, è giusto cautelarsi, ma non risulta che altrettanta precisione sia stata mai richiesta, se non in via molto riservata, circa l'esposizione del sistema , emissione per emissione, rischio per rischio, alla finanza immobiliare. Ora questa, vero cancro della finanza americana e origine delle metastasi anche per la finanza europea che nel frattempo ci ha aggiunto del suo, ha dimensioni enormi. Metà del portafoglio delle banche, ricordava tre giorni fa Chris Whalen di Institutional Risk Analyst, e due terzi della loro esposizione totale è legata all'immobiliare. Che sta andando in realtà di male in peggio, anche se i pignoramenti frenano, ma lo fanno perché le banche non hanno interesse a concluderli in fretta perché dovrebbero allora iscrivere a libro le perdite, che equivalgono in genere al 50% del valore del mutuo. Ormai in default o in area default, in forte ritardo cioè sui pagamenti, c'è circa un sesto – le stime variano, ma questa è attendibile - dell'intero parco mutui americano, cioè circa 9 milioni di mutui secondo Laurie Goodman di Amherst Securities, altra autorità in materia.

Il sistema bancario europeo è una mina vagante? Sta peggio, come si dice spesso oggi a Wall Street, di quanto stesse nel 2007-2008 quello americano? Ma non è stata Washington come ha ripetutamente detto il ministro del Tesoro Timothy Geithner a salvare tre anni fa Wall Street dalla bancarotta? Certo, le banche americane sono oggi meglio capitalizzate. Ma come ricordava nel suo blog ospitato dal Financial Times il finanziere Gavyn Davies, ex presidente della BBC, il sistema è seminazionalizzato, con Fed e Banca d'Inghilterra che hanno quintuplicato il proprio portafoglio acquistando titoli dalle banche e debito pubblico (sempre dalle banche), mentre la Bce lo ha fatto per tre volte e mezza, accelerando negli ultimi mesi.

I mercati finanziano senza problemi il debito pubblico americano e sono più prudenti, selettivamente, su quello europeo. Ma risulta difficile ipotizzare una cautela generale, su euro e su dollaro, perché in questo caso la liquidità non saprebbe dove andare. E non c'è dubbio che al momento il tetto offerto dal dollaro, tutt'altro che stagno, fa comunque meno acqua di quello dell'euro. Che però non crolla, e mantiene, fatto insieme positivo, e negativo per l'export, una notevole robustezza sui cambi rispetto alla valuta americana. Scenderà forse, ma la parità non sembra dietro l'angolo. Intanto aspettiamo a vedere quanto terrà, fra un paio di mesi, la ripresina americana di fine anno. Speriamo tenga benissimo, ma molte previsioni ne dubitano seriamente.

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