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Questo articolo è stato pubblicato il 18 gennaio 2012 alle ore 08:02.
L'ultima modifica è del 18 gennaio 2012 alle ore 06:40.

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«Le rivoluzioni del mondo arabo incarnano la rabbia delle popolazioni per la loro situazione economica», spiega Ibrahim Saif, economista del Carnegie Middle East Center di Beirut. In tutti i Paesi, perfino in Siria, erano state fatte riforme economiche mai viste prima: mercati, privatizzazioni, banche, investimenti esteri. Per vent'anni i prodotti interni sono cresciuti quasi ininterrottamente.

Ma nello stesso periodo la percentuale dei salari sul Pil è crollata ovunque: i vecchi mastodonti dello statalismo arabo si aprivano ma la gente diventava più povera.
Per conto del capitalismo occidentale, la Banca Mondiale e il World Economic Forum valutavano con entusiasmo le performance dei Paesi arabi, giudicando solo "il grado di soddisfazione del settore privato nei confronti dello status quo". Non il reale stato economico delle società civili di quei Paesi. Il risultato destabilizzante non è stato solo la caduta dei vecchi regimi e la difficile sostituzione con qualcosa di politicamente nuovo. È scomparsa un'alternativa economica: al socialismo non torna più nessuno, il capitalismo è screditato, le fratellanze islamiche che ovunque si affermano, non hanno modelli economici.

Questa sarebbe la situazione non entusiasmante delle rivolte arabe all'inizio del 2012, se ci limitassimo a pensare come Saif, che sia stato lo squilibrio economico la scintilla delle Primavere arabe e l'assenza di prospettive di crescita lo strumento per comprendere l'assenza di libertà civili. L'economista del Carnegie ha ragione ma nel frattempo vecchi regimi sono caduti, altri stanno per crollare e all'insidia di popoli liberati ma sempre più poveri, si aggiunge quella geopolitica.
L'Iran di Ahmadinejad è sempre stata una minaccia, mai però fino a chiudere Hormuz e stravolgere il mercato petrolifero mondiale. Le sanzioni economiche americane non giustificano questa fibrillazione. L'imminente crollo del regime siriano sì: è l'espansionismo sciita iraniano che rischia di crollare a un passo dall'evento decisivo, il possesso dell'arma atomica. C'era un "crescente sciita" che dall'Iran, attraversava l'Iraq, aveva la sua base principale in Siria, proseguiva trionfalmente nel Libano controllato da Hezbollah e spingeva le sue propaggini fino a Gaza. Hamas è sunnita ma i soldi per la sua guerra privata a Israele non hanno odore.

Oggi in Iraq il potere sciita è controverso e la Siria esala gli ultimi respiri, lunghi e sanguinosi, trascinando con sé il futuro delle guerriglie libanesi e palestinesi. A dicembre il Libano doveva pagare la sua quota di 33 milioni di dollari per finanziare il Tribunale speciale dell'Onu, istruito per indagare sull'omicidio dell'ex premier sunnita Rafik Hariri. Hezbollah, forza di governo e primo indiziato, pretendeva di non pagare. Il premier Najib Mikati invece lo ha fatto, attingendo da un fondo d'emergenza. Mikati non sarebbe al suo posto senza Hezbollah e i siriani ma alla fine ha prevalso la sua appartenenza alla setta sunnita. Non sarebbe successo se Bashar Assad non fosse così debole.

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