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Questo articolo è stato pubblicato il 05 febbraio 2012 alle ore 14:18.

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Il Fiscal Compact, vale a dire l'accordo intergovernativo voluto dalla Cancelliera Merkel per portare disciplina e austerità nei bilanci dell'Unione, lo abbiamo letto sino ad ora, preoccupati soprattutto per le clausole che ci costeranno restrizioni nei prossimi anni: la clausola che impone a tutta l'eurozona il pareggio annuale di bilancio e quella che agli Stati con un debito totale superiore al 60% del Pil chiede di ridurre di un ventesimo l'anno l'eccedenza rispetto a quel 60 per cento.

Proprio in questi giorni, gli economisti ci hanno spiegato che, se riusciamo a ottemperare alla prima clausola mantenendo anche in futuro l'avanzo primario assicuratoci sino al 2014 dalle recenti manovre, il debito totale non aumenterà e quindi quella riduzione di un ventesimo dovrebbe scaturire, senza nostri sacrifici ulteriori, dalla pura e semplice crescita nominale del Pil, prima del 2,5% e poi del 2%. In parole povere, sulla nostra schiena non ci sarò il cumulo di due carichi, ce ne sarà in effetti uno solo, per pesante che sia.

Se questo ci tranquillizza, non vorrei che ci tranquillizzasse sino al punto di farci ignorare gli altri aspetti del Fiscal Compact, quelli sui quali si è preso a interrogarsi in tutta Europa e io stesso sono stato interrogato la settimana scorsa a Londra dalla Commissione per l'Unione europea della House of Lords britannica. Non c'è soltanto il rapporto fra disciplina e crescita, c'è anche la possibile divisione dell'Unione in più cerchi caratterizzati da regole e da livelli di integrazione profondamente diversi a rendere legittima, e largamente condivisa, la domanda che si pone Vivien Schmidt sull'ultimo numero del «Bepa Monthly Brief», diretto dal nostro Antonio Missiroli.

«Con il Fiscal Compact – scrive la Schmidt – l'Unione risolverà la crisi del debito. Ma sopravviverà alla soluzione?».
Intanto il Fiscal Compact, sebbene firmato da venticinque Stati su ventisette (e già questo è un problema) impone le sue clausole più impegnative, a partire dalle due di cui ho appena parlato, ai soli Stati dell'eurozona. Di conseguenza, solo in essi dovrebbe prendere corpo quella prima forma di integrazione fiscale, rappresentata dalla obbligatoria ottemperanza alle proposte della Commissione da parte degli Stati colti in difetto nel corso di una procedura a loro carico per deficit eccessivo (art.7) e dalla attivazione automatica delle azioni correttive quando non è rispettato il pareggio di bilancio (art.3, par.2). Ma non c'è solo questo. C'è anche la previsione dell'art.14, a norma del quale l'accordo (chiamato "Trattato") entrerà in vigore non appena lo avranno ratificato dodici dei venticinque Stati stipulanti, purché si tratti di dodici membri dell'eurozona .

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