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Questo articolo è stato pubblicato il 10 febbraio 2012 alle ore 08:14.
L'ultima modifica è del 10 febbraio 2012 alle ore 06:40.

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Il dibattito sul valore legale dei titoli di studio, stimolato dalla consultazione pubblica annunciata dal Governo, non può prescindere da una riflessione più generale sul sistema universitario di cui il Paese ha bisogno per crescere. Questa prospettiva più ampia consente di chiarire due equivoci. Il primo è che basti eliminare il valore legale della laurea per risolvere magicamente tutti i problemi.

Non è così: senza creare le basi per una vera concorrenza tra gli atenei, sul piano della ricerca e della didattica, la sola abolizione del valore legale avrebbe scarsa efficacia. Il secondo è che sia in gioco una pericolosa riduzione delle tutele che proteggono i cittadini nei loro rapporti con i professionisti laureati. Anche in questo caso non è così: non è in discussione un controllo rigororoso sul rispetto di standard minimi per l'accreditamento degli atenei e per l'accesso ad alcune carriere, soprattutto in tutti quei casi in cui il consumatore non ha il tempo o le informazioni sufficienti per scegliere a ragion veduta prima di subire le conseguenze della prestazione di un professionista.
Chi, come noi, auspica l'abolizione del valore legale della laurea vuole evitare che la forma possa prevalere sulla sostanza. Se lo Stato nei concorsi pubblici considera lauree prese in diversi atenei come equivalenti, i cittadini possono dedurne che non sia necessario fare una distinzione tra quelle lauree, quando devono decidere in quale ateneo studiare o quali laureati assumere.

Se né lo Stato né i cittadini fanno distinzioni, gli atenei hanno un minore incentivo a migliorare la qualità della loro offerta formativa. Inoltre, se la garanzia formale dello Stato induce il cittadino a pensare che due università siano di pari qualità quando in realtà non lo sono, quella peggiore gode di una protezione contro la concorrenza, e quindi di una rendita ingiustificata. Il Governo sta cercando di abbattere le barriere contro la concorrenza che proteggono, per esempio, i tassisti, i notai o i farmacisti; perché non dovrebbe fare lo stesso con i professori universitari e i loro atenei? Non dovrebbero anche loro essere soggetti al giudizio dei loro utenti?
Affinché questo giudizio abbia effetti concreti, però, è necessario che i cittadini, e in primo luogo gli studenti, abbiano una possibilità reale di scegliere, e che gli atenei abbiano l'autonomia e le risorse per rispondere efficacemente alla domanda di maggiore qualità. Abbiamo esposto su queste colonne i lineamenti di una proposta che va in questa direzione (http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/rilanciamo-le-universita-con-prestiti-agli-studenti).

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