Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 04 aprile 2012 alle ore 08:15.
L'ultima modifica è del 04 aprile 2012 alle ore 06:41.

Non sono un caso, allora, le parole che il rapporto in fase ormai finale della Cei di cui ha dato ampia anticipazione il settimanale «Il Sole-24 Ore Sanità», spende in merito al suo legame col sistema di assistenza sociale pubblico. «L'impressione è che si stia tornando a quel concetto di supplenza, allora "tollerata" e spesso ideologicamente contrastata, che aveva caratterizzato il nostro sistema fino agli anni Ottanta». Il dubbio, la preoccupazione, è di essere relegati a un ruolo di «supplenza del pubblico». E allora: «Se il ruolo di supplenza del pubblico poteva avere un senso in un diverso quadro di ordinamento e di presenza (nel 1960) di una spesa pubblica pari al 2% del pil e di una spesa per protezione sociale del 15%, lo è molto meno oggi con al spesa pubblica che assorbe più della metà del pil e la protezione sociale più di un quarto».

Di qui il pericolo fiutato dalla Cei, con tanto di non casuale rimando alla Costituzione (articoli 2, 4 e 118): «L'impressione è di essere davanti a un concetto distorto di sussidiarietà e a una utilizzazione del dovere di solidarietà strumentalmente dettati da esigenze di finanza pubblica e dalle inadeguatezze della pubblica amministrazione».
Un atto d'accusa neppure velato al sistema in atto. E a quello che potrebbe nascere dopo le riforme in itinere con la crisi che morde. Ma anche a una burocrazia e a uno stato invadente nel quale non sempre la risposta ai bisogni socio-sanitari è il motore dell'attività e dei servizi pubblici. Il censimento della Cei evidenzia intanto un radicamento diffuso e articolato nella società italiana. Col 62,3% di servizi socio-sanitari e sociali non residenziali, il 31,2% residenziali e solo il 6,4% dedicato specificamente all'assistenza sanitaria.

Con le parrocchie prime gestori (25,9%) soprattutto di servizi socio-sanitari o sociali non residenziali, seguite dalle associazioni di volontariato (21,1%) e dagli istituti di vita consacrata e dalle Società di vita apostolica(11,1%). Quasi due terzi delle opere cattoliche hanno meno di vent'anni, ma più della metà sono nate nell'ultimo decennio. Segno di bisogni sociali in crescita, di un'offerta pubblica che non ce la fa più e della crisi che soffia forte e che le opere religiose cercano di affrontare. Ma con pecche che il rapporto non si nasconde: la massima diffusione al nord (48%), in particolare nel nord-ovest (26%), mentre nel sud e nelle isole, dove i bisogni sono maggiori, l'offerta è ancora troppo bassa (28%).

Anche la questione meridionale, chiarisce il rapporto della Cei, dovrà essere infatti uno dei punti di ripartenza dell'offerta socio-sanitaria cattolica. Come la non autosufficienza, altro nervo scoperto del sistema pubblico. E come i dilemmi che pone, e che sempre più porrà il federalismo fiscale. «La presenza diffusa delle opere religiose – afferma monsignor Andrea Manto, segretario dell'ufficio nazionale della Cei per la Pastorale della Sanità – rappresenta un forte elemento di unità nazionale e di identità. Sono la via maestra per tutelare la salute in maniera sostenibile».

Ma attenzione, aggiunge: «Molto spesso le opere ecclesiali riescono a dare risposte là dove l'offerta dei servizi regionali è carente. E nella gran parte dei casi, a parità d'offerta, costano meno del servizio pubblico e danno risposte riconosciute e apprezzate». Questione d'orgoglio cattolico, ma non solo. Che spiega perché la crisi del Gemelli di Roma col suo credito di 800 milioni non pagati dalla regione Lazio, e i casi di tutti gli ospedali religiosi, anche se non citati, siano nel cuore del rapporto della Cei.

Shopping24

Dai nostri archivi