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Questo articolo è stato pubblicato il 10 giugno 2012 alle ore 14:30.
L'ultima modifica è del 10 giugno 2012 alle ore 16:38.

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L'Ue è figlia della risposta politica data da esponenti illuminati della classe dirigente europea del dopoguerra alle tragedie create esasperando le logiche del nazionalismo e della contrapposizione d'interessi. Due guerre devastanti nello spazio di un ventennio sono state lezioni inequivocabili su rischi di nazionalismo e dittature che gli europei hanno ben appreso. Bisognava superare diffidenze, rancori, sfiducia, barriere culturali, ferite ancora aperte che potevano portare nuove guerre e dittature.

La cornice dell'euro in un mercato interno completato nelle sue grandi linee fu un salto decisivo dell'integrazione economica voluto da Kolh, Mitterrand, Delors o Ciampi, ultima eredità della generazioni che aveva vissuto la guerra. Ma con l'euro il metodo di Monet - mettere insieme interessi economici concreti per aprire la via all'integrazione politica - ha mostrato i suoi limiti. La crisi ha evidenziato che una moneta comune presuppone la condivisione di qualcosa di più di un mercato o di una politica commerciale. Serve un vero governo dell'economia, una banca e un bilancio che riflettano un livello d'interazione di tipo federale o, comunque, molto più politica. Ma soprattutto, serve fiducia reciproca, il saper comunicare gli uni con gli altri, capirsi. Il vero rischio di tenuta dell'Europa di oggi, oltre che dall'economia, viene da crescenti difficoltà a capire le ragioni degli uni e degli altri, pur tutte legittime, ma legate a una prospettiva di interesse nazionale spesso di breve termine. È arrivato il tempo in cui tutta la classe dirigente europea - a cominciare da quella tedesca - spieghi alle rispettive opinione pubbliche le ragioni di fondo e i vantaggi dello stare insieme. E i relativi costi di una di sua disintegrazione.

Più spinta all'impresa
La strategia per uscire dalla crisi passa per una maggiore attenzione all'economia reale, alle Pmi, alla forza innovativa e creatrice della nostra industria. Senza una forte base industriale non riusciremo a creare lavoro e a pesare nel mondo di domani. Solo dal manifatturiero in Europa dipendono direttamente 37 milioni di posti. Perdendo capacità nel manifatturiero vi sarà meno lavoro e non riusciremo più a innovare.

L'Europa deve recuperare fiducia nella sua capacità di industriarsi, intraprendere, innovare e crescere. Per questo deve rimettere al centro l'economia reale e l'industria, la sua forza. In linea con la strategia Europa 2020, dobbiamo assicurare le necessarie sinergie tra le nostre diverse politiche per l'industria: sostenibilità, ricerca e innovazione, infrastrutture, educazione, mercato finanziario, maggiore integrazione del mercato interno e un contesto più favorevole al business, accesso ai mercati internazionali, tutte vanne focalizzate sui cambiamenti in atto in un piano coerente per uscire dalla crisi.

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